Gli artisti ospiti
LUIS EDUARDO AUTE
Nato a Manila nel 1943, con Joan Manuel Serrat e Joaquín Sabina ha formato, la grande Trinità della canzone d’autore spagnola. All’attività musicale ha affiancato quella pittorica, alternando concerti e grandi esposizioni. Hanno interpretazto sue canzoni i maggiori cantautori spagnoli e sudamericani, da Pablo Milanés a Joaquín Sabina, da Joan Manule Serrat a Silvio Rodríguez. L’unico suo successo italiano (Bobo Merenda interpretata da Enzo Jannacci) è una canzone che non ha mai cantato. Premio Tenco 2001, ha inciso in italiano La bellezza, uno dei suoi maggiori successi. È morto di covid il 4 aprile 2020, durante la lavorazione di questo disco.
JOAN ISAAC
Nato nel 1953, esordisce discograficamente nel 1974 segnalandosi come uno dei principali esponenti della Novissima cançó catalana. Nel 1977 s’impone all’attenzione di critica e pubblico con A Margalida, una delle canzoni destinate a restare scolpita nella memoria nazionale. Ha inciso ventun album e ha partecipato a ventiquattro opere collettive. Nei suoi dischi sono intervenuti interpreti come Silvio Rodríguez, Joan Manuel Serrat, Luis Eduardo Aute, Lluís Llach, Ana Belén, Alejandro Filio, e, tra gli italiani, Roberto Vecchioni, Mauro Pagani, Eugenio Finardi, Giorgio Conte. Ha partecipato allo spettacolo Storie e amori d’anarchie e a quattro edizioni della Rassegna del Club Tenco, negli anni 2000, 2001, 2005, 2008.
AMANCIO PRADA
È nato nel 1949 nel Bierzo, dove si parla anche galiziano, la lingua degli antichi trovatori medioevali. Esordisce nel 1974, con un disco registrato a Parigi, dove studia sociologia. Compone prevalentemente canzoni basandosi sui testi dei maggiori poeti spagnoli, con una particolare attenzione per quelli del siglo de oro. Reiterato il suo lavoro sul Cantico espiritual di San Juan de la Cruz, rappresentato in Europa, Nord-Africa e Sudamerica (in Italia a Roma e al Festival di Ravenna). Ha cantato anche poeti galiziani, in particolar modo Rosalía de Castro con due dischi, e le composizioni in gallego di Federico García Lorca (Poeta en Galicia). Ha inciso trenta album in studio e quattro dal vivo, segnalandosi negli ultimi anni per la preziosità dei formati e delle grafiche. È stato Premio Tenco nel 2010.
SILVIO RODRÍGUEZ
Cubano, nato nel 1946, è il trovatore più celebre e importante dell’America Latina, capace di riempire i grandi stadi delle capitali sudamericane e di esibirsi al Central Park di New York malgrado la sua dichiarata fedeltà al regime castrista. È stato Premio Tenco nel 1985 (quell’anno si è esibito accompagnato dagli Afrocuba) è tornato a Sanremo, stavolta in solitario, nel 2000. Ha inciso diciannove album in studio, quattro dal vivo e ha partecipato a 57 opere collettive (58 con questa). Hanno interpretato sue canzoni tutti i più grandi cantautori in lingua spagnola, da Joan Manuel Serrat a Luis Eduardo Aute, da Pablo Milanés a Joaquín Sabina. Tra gli interpreti italiani di sue canzoni ci sono Fiorella Mannoia (su testo di Ivano Fossati), Gigliola Cinquetti, Maria Monti.
RUSÒ SALA
Autrice, chitarrista e cantante, nata a Roses nel 1982, fa il suo debutto discográfico nel 2009. Scrive in catalano sebbene nei dischi e negli spettacoli, anche in qualità di cantante dell’Orquesta de Percusión Iberica Coetus, non disdegna di proprorre brani in castigliano, in italiano nonché alcuni repertori di musica latino-americana, sefardita e andalusí (degli arabi scacciati dopo la Reconquista). In Italia, nel 2013 ha vinto in due sezioni al Premio Parodi, nel 2014 ha partecipato a Estensioni, manifestazione invernale del Club Tenco, e nel, 2016 al Guccini International (nella manifestazione di Barcellona, Pavana e Boario nonché al relativo disco). Ha partecipato al disco Le cose di Amilcare (2012) e, per Squilibri a quello di Multifilter (2017).
JOAN MANUEL SERRAT
Nato a Barcellona nel 1943, è stato uno dei pionieri della Nova Cançó catalana (La Tieta fu portata al successo in Italia da Mina come Bugiardo e inconsciente e poi ripresa nel 2004 da Guccini come La ziata). Il suo passaggio alla canzone in spagnolo destò non poche polemiche, ma il successo delle sue canzoni l’ha imposto in tutto il mondo ispanofono consacrandolo come star assoluta. Ha musicato poeti tra cui Antonio Machado, Miguel Hernández, Mario Benedetti, Joan Salvat-Papasseit (a costoro ha dedicato album interi) nonché Pablo Neruda, Federico García Lorca, Ernesto Cardenál, Leon Felipe e altri. Oltre che da Mina e Guccini, in Italia è stato cantato da Gino Paoli, che gli ha dedicato un intero disco, da Ornella Vanoni, Milva e Mia Martini. Premio Tenco, ha partecipato alle edizioni 88 e 99.
ADRIANA VARELA
Argentina nata nel 1952, ha frequentato l’Università per stranieri di Perugia specializzandosi poi, in patria, in fonoaudiologia. Da trenta’anni la regina del tango. Grazie allá sua voce da contralto e alle sue radici rock, nei diciotto dischi finora incisi ha saputo conferire al genere un grande rinnovamento pur andando a rivisitare il repertorio più tradizionale. Suoi mentori sono stati due anziane leggende del tango: il compositore Virgilio Expósito e il cantante Roberto “Polaco” Goyeneche. Nella sua carriera ha condiviso il palcoscenico con stelle internazionali come Liza Minelli, Tito Puente, Celia Cruz, Joan Manuel Serrat. Garganta con arena, canzone scritta da Chaco Castaña e dedicata a Goyeneche, è il suo successo più rappresentativo.
I musicisti
Alex Aliprandi: mandolino
Angapiemage Persico: violino
Andrea Del Vecchio: flauto
Alessandro D'Alessandro: organetto
Lorenzo Colace: chitarra classica, cuatro venezuelano
Enrico Sala: chitarra acustica
Francesco Gaffuri: contrabbasso, basso elettrico
Francesco Vittorio Grigolo: tromba
Piero Goria: body percussion
Ilaria Cirello: coro, percussioni
Laura Pupo de Almeida: oboe, flauto, duduk
Luciana Elizondo: viola da gamba
Marco Tazzi: pianoforte, organo hammond
Maurizio Del Monaco: sax
Michele Staino: contrabbasso, basso elettrico
Paola Colombo: violoncello
Pier Zuin: bag pipe, tarota catalana
Rebecca Marasco: coro, percussioni giocattolo
Le introduzioni alle canzoni di Sergio Secondiano Sacchi
26 aprile 1945. Piccola serenata diurna
Tra le accuse alla rivoluzione cubana c’è quella di avere fatto sparire le grandi orchestre (quelle degli opulenti casinò e dei programmi televisivi). In realtà, a farlo era stato il rock con la sua ondata di rinnovamento culturale e di snellimento formale e, mentre nella Cuba di Castro, le big band di Benny Moré e Luis Carbonell o la Orquesta Aragón avevano conservato successo e prestigio, Pérez Prado e Xavier Cugat, fuggiti all’estero, avevano iniziato il loro declino. Bebo Valdés era finito a fare il pianista d’albergo in Svezia.
Quando le truppe di Cienfuegos e Guevara entrano all’Avana, Silvio Rodríguez ha appena compiuto dodici anni. È un tipico figlio della rivoluzione, spettatore degli sviluppi immediati: riforma agraria, campagna di alfabetizzazione, lotta anti-corruzione, nazionalizzazioni anti-yankee. Poi verrà il comunismo. Figlio della politica culturale del regime, si forma all’interno dell’Instituto Cubano del Arte e Industria Cinematográficos, creato tre mesi dopo la presa del potere. Qui si promuove ogni tipo di musica, anche se l’industria discografica locale non è poi molto abile nel venderla e così nel 1996, con Buena Vista Social Club, si alimenterà la credenza dei vecchi suonatori emarginati dal regime mentre, come evidenziato dai tre dischi Años di Pablo Milanés, da più di dieci anni era iniziato nel Paese un sistematico recupero di quei rappresentanti del canto popolare fuori moda già ai tempi di Batista: negli anni Cinquanta Compay Segundo aveva lasciato Los Compadres per lavorare in una fabbrica di sigari.
Pequeña serenada diurna è una canzone non solo musicalmente folgorante, ma unica nel suo genere: con il ringraziamento a tutti coloro che hanno costruito la felicità altrui pagando con la propria vita, si fa specchio dello spirito della rivoluzione. La traduzione presuppone a volte l’adattamento a una realtà diversa e la versione italiana è stata perciò dedicata, come esplicitato dal titolo, alla Resistenza.
Rotterdam
Quando da noi spopolava la canzone francese negli anni Sessanta, Léo Ferré godeva di grande credito, ma non c’erano suoi dischi a celebrarlo: il successo di Paris canaille era stato dovuto, soprattutto, alle versioni di Yves Montand e di Juliette Gréco. Altri suoi connazionali erano più conosciuti: il successo di Ne me quitte pas aveva reso Jacques Brel popolare come cantante (e quello di Lombardia, trasposizione di Le plat pays di Herbert Pagani, come autore), le versioni di De André e di Svampa avevano dato fama a Georges Brassens, nel 1967 la dama in nero Barbara si era esibita in cinque città italiane e, cantando nella nostra lingua, avevano ottenuto grandi successi commerciali Charles Aznavour e Alain Barrière. Di Léo, invece, si conosceva soprattutto il controverso prestigio in patria, dove il suo anarchismo aveva attirato diverse critiche: non era un artista ecumenico, faceva scandalo perfino cantando i poeti.
Lo incontrai al Piccolo Teatro, mi sembra fosse il ’69. Mangiando a mezzogiorno al bar di fronte, il Sarni bar, parlammo della canzone italiana e gli feci ascoltare Fabrizio De André. Ne rimase impressionato. La sera glielo presentai. A riprova della scarsissima notorietà di cui godeva, mi resi conto che Fabrizio, che conosceva benissimo il repertorio di Brassens e abbastanza bene quello di Brel, era del tutto digiuno del suo. Quella sera, dopo l’esecuzione di Ils on voté, uno spettatore francese abbandonò la sala offeso, imprecando ad alta voce. In sala c’erano anche EnricoMedail e Didi Martinaz, dei quali sarei diventato amico un paio d’anni dopo. Enrico non solo sarebbe stato il traduttore di Léo, ma anche un insostituibile riferimento per tutti coloro che si sarebbero cimentati nella trasposizione linguistica di canzoni. Fu il mio grande maestro.
Margalida
Un anno dopo la nascita della RAF in Germania e delle BR in Italia, nel 1971 si crea a Barcellona il MIL, Movimento Ibérico de Liberacion, composto da una decina di anarchici, rampolli della media borghesia, e da un paio di sanguinari estremisti francesi. Formano una banda di cosiddetta “resistenza armata” votata alla clandestinità e dedita agli “espropri proletari”, cioè alle rapine in banca. Tanto adrenalinico quanto velleitario, il gruppo fornisce continue prove di scarsa professionalità operativa: l’autista Salvador Puig Antich arriva perfino a dimenticare in un bar una borsa contenente una pistola P-38 e una serie di documenti con fotografie. Nel 1973 inizia la disgregazione: alcuni abbandonano, altri sono arrestati e uno rivela i luoghi della clandestinità. Gli agenti organizzano a Barcellona una trappola per catturare Xavier Garriga, ignari di incontrare anche Puig Antich. Il primo si arrende, il secondo reagisce. Nell’androne della casa ha inizio una confusa sparatoria, l’anarchico ventiseienne resta ferito e un poliziotto ucciso. Il conto dei proiettili non torna: i colpi sparati dal giovane sono tre, ma nel corpo dell’agente il medico di guardia ne conta almeno cinque. La difesa contesta che la pallottola omicida provenga dalla pistola dell’anarchico, ma il tribunale militare non ammette testimonianze o perizie, segue logiche politiche e non giudiziarie e dalla farsa del processo, celebrato in un giorno, esce il verdetto prestabilito: pena di morte. I dubbi mai chiariti e la giovane età dell’imputato spingono per un provvedimento d’indulto cui si aggiunge una supplica del Papa. Il cattolicissimo Franco non ascolta e l’anarchico è giustiziato mediante la garrota. A tenere sempre viva la memoria di Puig Antich, cui la sindaca di Barcellona Ada Colau ha intitolato nel 2017 una piazza, è stata una canzone di Joan Isaac dedicata all’amica Margalida Bover, fidanzata dell’anarchico.
Musetto
Vladimir Nabokov emigra in inghilterra all’età di vent’anni, ne ha trentadue Josif Brodskij quando sceglie l’esilio per gli USA. Tutti e due diventano scrittori e poeti di lingua inglese e il secondo sarà perfino insignito del Nobel. Traghettatori d’arte, si spostano tra sponde idiomatiche differenti, la lingua è solo un’occasione per non essere stranieri.
È un traghettatore anche Domenico Modugno, pugliese di Polignano che, nel 1956, scrive Lu pisce spada in siciliano. Simile, dirà, al salentino di San Pietro Vernotico dove s’è trasferita la famiglia. In questo dialetto seguono un’altra dozzina di canzoni, tra cui U minaturi e Lu sciccareddu mbriacu. Dopo replica in napoletano con Strada ‘nfosa. E con parolieri indígeni, tra cui Eduardo De Filippo, Dino Verde (Resta cu’ mme) e Riccardo Pazzaglia (Io, mammeta e tu, E venne ‘o sole, ‘O cafè) scriverà altri venticinque brani nella lingua che ha reso grande la canzone italiana in tutti i continenti. Poi arriva il momento dell’idioma nazionale e stavolta è lui a invadere il mondo con Volare. Mimmo è traghettatore non solo idiomatico, ma anche stilistico e interdisciplinare: con Le morte chitarre di Salvatore Quasimodo, nel 1960 è il primo a introdurre la letteratura nella musica leggera. Si ripeterà nel 1968 con Cosa sono le nuvole di Pier Paolo Pasolini.
Insieme a Carosone e a Buscaglione, coglie i mutamenti di una popolazione che, da contadina, si sta velocemente trasformando in urbana. Il Vecchio frack, che all’alba galleggia sul fiume offrendosi agli sguardi di una città risvegliata, è la metafora di un’Italia d’altri tempi destinata a sparire (per di più la borghesia nascente indossa lo smoking). Modugno registra i mutamenti sociali e culturali mettendo però in guardia dal neo-provincialismo, nemmeno tanto strisciante, introdotto dalla società dei consumi. E, in Musetto, rifiuta i tipici modelli femminili alimentati dalla pubblicità e dai fotoromanzi.
All'alba
Franco la muerte cantava Léo Ferré. E il caudillo non ha mai fatto nulla per smentire la feroce fama acquisita con la repressione nelle Asturie nel 1934, alla guida della Legione straniera spagnola, puntualmente confermata durante la guerra e consolidata nei tre anni immediatamente successivi con le ripetute fucilazioni eseguite da plotoni di volontari la mattina presto a Las Ventas, la più grande arena per corride di Madrid. Ribaltando un celebre verso di Oscar Wilde “ogni uomo uccide ciò che ama”, lui ha continuato a sterminare ciò che odiava, infischiandosene , come nel 1963 con Julián Grimau, dell’opinione pubblica internazionale o degli stessi codici penali e conservando la pratica fino al capezzale: il 27 settembre 1975, cinquanta giorni prima di morire, fa giustiziare nelle carceri di Madrid, Barcellona e Burgos cinque giovanissimi oppositori, rimanendo del tutto indifferente agli appelli di clemenza pervenuti da ogni parte del mondo, compresa la telefonata di Paolo VI cui non risponde. Solo che, invece della barbarica garrota usata per l’ultima volta con Puig Antich, decide di ricorre all’umanissima fucilazione. Lo sdegno nazionale e internazionale è concitato e Joan Manuel Serrat, che si trova in tournée in Messico, definisce pubblicamente “assassino” il dittatore. Per questo motivo evita poi di tornare in patria. Pochi giorni prima della pubblicizzata esecuzione, Rosa León esegue per la prima volta Al alba di Luis Eduardo Aute. Ripresa anche da Ana Belén e poi dallo stesso autore, diventa una delle più angoscianti canzoni sull’ultima notte di un condannato. Esistono moltissime canzoni sulla pena di morte, un po’ meno sulla notte finale, quella dell’attesa. Tra queste ricordiamo: 25 minutes to go di Johnny Cash, À la Roquette di Aristide Bruant, Ballad of Donald White di Bob Dylan, Sei minuti all’alba di Fo-Jannacci, Zítra ráno v pět di Jaromír Nohavica, Oh mama, oh papa di Bobo Rondelli.
Winterlude, interludio
Winterlude è una canzone di Bob Dylan contenuta nell’album New Morning. Francesco De Gregori l’ha omaggiata con Buonanotte fiorellino e ambedue le canzoni sono state giudicate “zuccherose” dalla critica più severa, quella che con rigorosa inflessibilità contrapone alla musica leggera la musica pesante. Però il giovane Luigi Manconi, allora critico musicale con lo pseudonimo di Simone Dessì, difese il brano di De Gregori in nome del “romanticismo proletario”.
Winterlude è un gioco di parole tra winter (inverno) e interlude (interludio) che, al pari di Tito Schipa jr, potremmo tradurre inverludio, mentre Alessandro Carrera opta per Interludio d’inverno. È il carnevale canadese che si svolge sulle nevi di Ottawa (Ontario) e della dirimpettaia Gatineau (Québec). In programma nei primi tre week-end di febbraio, è un grande festival denso di avvenimenti, dalle gare di pattinaggio alle sculture di ghiaccio, in grado di attirare oltre un milione e mezzo di visitatori.
Secondo Wikipedia, Winterlude è il nome della ragazza cui la canzone è dedicata, ma l’ipotesi non è del tutto convincente, del resto il sito non ha l’attendibilità della Treccani. Per cui, vista l’ambientazione rigidamente invernale, si sarebbe portati a pensare che si tratti del periodo in cui si svolge la vicenda d’amore cantata. Ma, come capita a volte con Dylan, i dubbi serpeggiano: il carnevale sulle nevi prende questo nome solo nel 1979, mentre la canzone è del 1970. Però è fin dal 1922 che nelle pricipali città del Canada (Québec City, Toronto, Niagara Falls, Calgary) si organizzano i carnevali d’inverno e probabilmente il termine era già in uso da tempo. Insomma: prima la festa o la canzone? Dylaniante dilemma…
Els mariners
Navigare necesse est, vivere non necesse: stando a Plutarco, così Pompeo istigò i marinai intimoriti dalla tempesta. La frase diventò il motto della Lega anseatica che nel Medioevo dominò Baltico e Mare del Nord. La traduzione Navegar è preciso, viver não è preciso, riportata sulle imbarcazioni dei grandi navigatori portoghesi, è ripresa da Caetano Veloso in Os Argonautas (per non risolte questioni metriche Bollani canta Navigare ha una meta, ma non ce l’ha la vita). Affascinato dal categorico imperativo, Fernando Pessoa sostituì il “navigare” con il “creare”.
Sul tema della navigazione, la canzone insegue continuamente la letteratura, da L’albatros di Baudelaire cantato da Ferré, al Melville di Capossela o al Conrad ripreso da Fossati e da Jovanotti. Trasportata dalle imbarcazioni, la musica naviga e la simba degli schiavi angolani diventa il samba a Salvador de Bahia, i cantos de ida y vuelta (di andata e ritorno), dal fandango alla siguriya, costituiscono quel repertorio di musica flamenca giunto nelle Americhe e fusosi con quella locale (per cui troviamo il tango in Argentina e la malagueña in Messico). La musica fa anche altri percorsi ed ecco che l’habanera cubana arricchisce la zarzuela in Spagna e nell’Ottocento spopola in Francia con Bizet, Lalo, Debussy e Ravel. Sbarcata nel Mar de la Plata, si trasforma in milonga.
Il mare non ha confini e così la classica Santy Ano, canto marinaresco britannico, parla della guerra messicana. Del resto, molti cantI popolari del Regno Unito confluiscono nel repertorio folk statunitense: se la Groenlandia è stata danese, non ci si stupisca se un canto come Greenland Whale Fisheries viene considerato irlandese (The Pogues) o statunitense (The Weavers). La musica naviga perché i marinai fanno l’identico lavoro a qualsiasi latitudine.
Noi, nel nostro piccolo, abbiamo voluto trasformare un canto di mare calabrese, scritto da Peppe, in una canzone catalana.
Millenovecentoquarantasette
De purisima y oro, che è il titolo di una delle più note composizioni di Joaquín Sabina, in ambiente taurino indica l’abito del torero di seta celeste ricamato d’oro (l’autore ne tiene esposto uno in vetrina in un salone di casa sua). Il testo della canzone rappresenta una straordinaria ricostruzione del dopoguerra di Madrid perché dei poveri e autarchici anni Quaranta spagnoli contiene tutto: la tipica economia post-bellica, i gelidi inverni, il razionamento, gli orfanatrofi, le sfilate dei plotoni di fucilazione franchisti, la rapatura delle donne repubblicane, i riferimenti ai discorsi di Franco, i celebri amori internazionali del torero Dominguín, la penuria diffusa, la ricerca di articoli e generi alimentari economici, il mercato nero, le processioni del Corpus Domini con i drappi rossi ottenuti con ritagli di bandiere comuniste, l’incompreso e perseguitato cantante Miguel de Molina emigrato in Argentina, le feste gitane, i locali di musica flamenca, i balli dell’epoca, attori e politici, famosi bar e ristoranti tra cui la cocteleria Chicote (resa famosa, durante la guerra, anche da Hemingway per il gin giallo), liquori e bevande di moda, i giornali dell’epoca, citazioni dal compositore messicano Augustín Lara, il mito di Eva Perón, l’Atleti de Aviación (ora Atlético Madrid) finito in Seconda Divisione, la storia d’amore tra la bellissima attrice Lupe Sino e il torero Manolete, morto nell’arena di Linares con conseguenti tre giorni di lutto nazionale.
Tradurre una canzone del genere era impossibile, ma il testo costituiva una sfida esaltante. Le risonanze partenopee della musica hanno suggerito l’idea di trasferirla nel dopoguerra di Napoli, con i relativi incroci, e discordanze, tra vicende reali, racconti popolari e suggestioni. Cambiano i colori, non solo politici, ma sono molto simili le atmosfere culturali e le contrastanti condizioni sociali che caratterizzano i tentativi di rinascita.
Nel porto di Amsterdam
“Venezia è l’Amsterdam del sud”. Battuta carina, ma poi ti viene da pensare ai dipinti di Tintoretto, Guardi, Turner, Ruskin e li paragoni alla sbrigativa tela giovanile di Van Gogh dove imperversa il francescanesimo cromatico del primo periodo… La città lagunare la si racconta en plein air, tra piazze e canali, campi e calli; quella nordica non uscendo mai di casa: Rembrandt ispeziona la vita cittadina senza mostrarci una strada, ma solo i ritratti della ricca borghesia. Blindata in una soffitta l’ha sognata Anna Frank mentre Clamence, protagonista de La caduta di Camus, la ipotizza attraverso le confessioni degli avventori del bar Mexico City.
Al contrario Brel sovverte il racconto raffigurando i suoi marinai, che hanno l’ardimento e la scompostezza degli eroi omerici, non soltanto in locali chiassosi, ma anche nella solitudine esterna dei vicoli disadorni o sotto la volta celeste. Della sua Amsterdam non esistono versioni in studio, ma solo due registrazioni dal vivo: quella del 1964 all’Olympia e una, dell’anno seguente, per la trasmissione rediofonica Jam Session, pubblicata solo nel 2019. Nel film Brel del 1982, Fréderic Rossif aveva però già mostrato sequenze di navi alternando le due versioni. Con l’eccezione di Florent Pagny, nessun altro interprete francese si è più cimentato con il brano che ha avuto, invece, diverse cover inglesi, tra cui quelle di David Bowie, John Denver, Ute Lemper, Dave Van Ronk e Scott Walker. Oltre che, naturalmente, in olandese, è stata tradotta e cantata in basco, corso, ebraico, finlandese, greco, polacco, sloveno, spagnolo, tedesco, nonché esperanto. Delle versioni italiane esistono quelle di Enrico Medail per Franco Visentin, di Pippo Pollina, di Dino Sarti in bolognese e di Walter Di Gemma in milanese. Versioni mai incise sono quelle, degli anni ’70, di Francesco Guccini e dei Pan Brumisti (qui utilizzata discograficamente per la prima volta).
Saeta
Antonio Machado ci ha lasciato poesia, prosa e, col fratello Manuel, opere teatrali. Al pari di Fernando Pessoa ha usato eteronimi (Juan de Mairena e Abel Martín). Campos de Castilla, da cui La Saeta è tratta, è considerata la sua opera poetica più rappresentativa nonostante, o forse proprio per, la disomogeneità (il poeta, tra l’altro, apportava modifiche a ogni edizione). La prima è del 1912, giusto in tempo perché una copia fosse consegnata alla giovane moglie morente. Pur partendo dall’osservatorio locale della regione tradizionalmente più rappresentativa del potere centrale, con la consueta tenue nostalgia, Machado s’interroga sul futuro dell’intera Spagna, un Paese diviso tra un passato per certi versi glorioso e un presente alquanto incerto e denso di inquietudini. Immagini e accenni autobiografici si immergono nella realtà storica nazionale, denunciando le condizioni economiche e culturali arretrate, piene di disuguaglianze e superstizioni. È un’opera che contrappone nitidamente le due anime del Paese: la reazionaria, rivolta al “passato effimero”, e la progressista, che emette i primi vagiti di vita. Finiranno per fronteggiarsi nella guerra civile, durante la quale il poeta si schiererà apertamente per il fronte repubblicano. Machado è stato ripreso e musicato da diversi cantautori e Joan Manuel Serrat gli ha dedicato un intero LP, Dedicado a Antonio Machado poeta (1969). Tra gli altri musicisti che si sono misurati con il poeta di Siviglia troviamo Doll By Doll, Maria Casarès, Adolfo Cedrán, Alberto Cortez, Paco Ibáñez, Francisco Montaner, Enrique Morente, Amancio Prada, Arianna Savall, Vicente Soto, Veus al Mar. La celeberrima versione di Serrat di La Saeta, qui ripresa, è stata eseguita tra gli altri, da Argentina, Camarón de la Isla, Cantores de Hispalis, Raimundo Fagner, Jairo, Rocio Jurado, Diana Navarro, El Pele, X Alfonso.
Cavalli bradi
Vladimir, o Volodja secondo il vezzeggiativo russo, Vysotskij nasce a Mosca, nel 1938. Si iscrive alla facoltà di Ingegneria che abbandona per diplomarsi a pieni voti all'accademia teatrale del MCHAT. Segue un periodo di bohème, caratterizzato da un primo matrimonio, sbronze colossali e la frequentazione di una comune di amici, tra cui il futuro cineasta Andreij Tarkovskij. Nel 1961 inizia a scrivere le blatnye pesni, le canzoni della mala, che diventano celebri nella capitale sovietica grazie alla "rivoluzione del magnetofono": la riproduzione domestica dei nastri. La fama di queste composizioni, cui corrisponde l’anonimato dell'autore, gli valgono la scrittura del regista Jurij Ljubimov per il teatro Taganka, di cui diventerà primo attore. Secondo matrimonio, frenetica attività teatrale e cinematografica, vita sempre più disordinata. Le sue composizioni vengono attaccate dalla stampa e ben presto condannate al silenzio ufficiale. Nel 1967 conosce l’attrice francese Marina Vlady che sposa l'anno seguente. Le cassette delle sue canzoni, duplicate di casa in casa, si diffondono nell’intero Paese, ma la cortina di ostracismo da parte dell’editoria statale si fa sempre più serrata. Come marito di una cittadina straniera, nel 1975 gli viene concesso il passaporto e incide dischi in Francia e Canada. Ignorato dal regime, ma osannato dal popolo russo, diventa il poeta più popolare del Paese. Le umiliazioni, la massacrante attività, l’isolamento psicologico, l'alcool e da ultimo la morfina, minano la salute, anche se la forte tempra lo sostiene. Nelle sue composizioni cominciano a infiltrarsi i presagi della propria fine finché un infarto lo stronca nella notte del 25 luglio 1980. Per non alterare lo svolgimento delle Olimpiadi, la notizia viene taciuta, ma il grido "Volodja è morto" rimbalza nelle metropolitane e nelle strade di Mosca. Quasi un milione di persone seguono il funerale. Nasce il mito.
Voce d'asfalto
Roberto”Polaco” Goyeneche, classe 1926, è uno dei capostipiti del tango e contende a Julio Sosa il ruolo di erede di Carlos Gardel. Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 si è conquistato fama e onori come cantante dell’orchestra di Aníbal Troilo, suo grande amico, e negli anni '80 ha avuto una fruttifera collaborazione con Astor Piazzolla. Proprio nel momento in cui le corde vocali vengono a mancargli, il personale timbro e lo stile interpretativo costruiscono la sua leggenda trasformandolo, presso molti artisti tra cui il nostro Vinicio Capossela, in un modello di comunicazione artistica. Nel 1989 conosce Adriana Varela e ne diventa il mentore fino alla sua scomparsa, avvenuta cinque anni dopo. I due incidono anche la celeberrima Balada para un loco della premiata ditta Astor Piazzolla & Horacio Ferrer.
Fu grazie a Vázquez Montalbán che venni a conoscenza dell’esistenza di Adriana Varela. Scrivendo per l’occasione anche alcuni testi di tango, l’aveva trasformata in un personaggio del suo Quintetto di Buenos Aires, ventiduesimo e ultimo appuntamento della saga di Pepe Carvalho. Lo lessi in ospedale, freschissimo reduce dalla sala di rianimazione. Tornato a casa, tra FNAC, Corte Inglés e negozi di Tallers, la via barcellonese dei negozi di dischi, trovai una decina di suoi cd. Tra le canzoni che mi folgorarono ci fu Garganta con arena, scritta da Cacho Castaña, dedicata proprio a Goyeneche e diventato un best seller argentino. L’innamoramento fu contagioso: Sergio Staino e Paolo Hendel si precipitarono a Roma per conoscerla in occasione di un concerto privato all’ambasciata argentina, mia moglie al teatro Grec di Barcellona, mentre Peppe non solo l’ha conosciuta a Buenos Aires, ma ha cantato addirittura insieme a lei in una trasmissione radiofonica.
La prima compagnia
Avevo quattordici anni e l’ascolto di Aria di neve e Io che amo solo te andava a toccare il cuore e la sensibilità estetica. Scoprire poi che La rosa bianca si basava su versi del cubano José Martí e che il testo de Il soldato di Napoleone altro non era che la traduzione letterale di una poesia in friulano di Pier Paolo Pasolini, fu una conquista: le letteratura era a portata di tutti, persino dei juke-box. Nel periodo in cui stava emergendo anche da noi la beatlesmania, l’offerta musicale era variegata: I Watussi divertiva, la classica Are You Lonesome Tonight illanguidiva, ma Endrigo affascinava. Cantava la dignità umana, il primo bicchiere di vino consolatorio, la chitarra compagna di vita, i treni dell’emigrazione, la Resistenza tradita. Con Via Broletto 34 (numero civico inesistente) mostrava che le canzoni sull’amore non sono necessariamente canzoni d’amore. Come i pittori rinascimentali, nei ritratti mostrava nitidamente anche sfondi e paesaggi: balere, alberghi a ore, strade di periferia, miti dello spettacolo. Mai nessun cantautore ha saputo cantare come lui le dinamiche sociali, emotive e politiche dell’Italia del boom economico e dei tempi che sono subito seguiti. Al Festival di Sanremo era un modello rispettato da tutti, in grado di parlare a giovani studenti e a nonne illetterate. Riascoltandolo ancor oggi, dietro a lui non si ravvisa l’ombra di un maestro identificabile: artista dalle radici ramificate e dai molti ascolti, aveva partorito un inconfondibile linguaggio. Inspiegabilmente, il suo declino iniziò proprio con le fortune del microsolco che imponeva una canzone impegnatacome la sua. L’immagine pubblica che ci ha tramandato è quella di un vero signore con una tristezza velata di malinconia, mentre in privato sapeva essere un inesauribile e divertente barzellettiere. Da quando se ne è andato ci manca molto. In fondo, è stata la nostra vera, prima compagnia cantautorale.
Per un sentiero
A tre anni di distanza l’uno dall’altro. Dopo Federico García Lorca, brutalmente fucilato nel 1936, durante i primi giorni dell’alzamiento, nel 1939 era stata la volta di un secondo andaluso, Antonio Machado, morto nel rigido inverno dopo la fuga in Francia insieme alla madre ottantacinquenne (deceduta tre giorni dopo di lui). Nel marzo del 1942 muore un altro poeta, Miguel Hernández, ucciso a 32 anni dalla tubercolosi e dal tifo contratti in carcere.
Costretto dal padre pastore ad accudire le capre, è assiduo studente clandestino, ma questo non gli impedisce d’imporsi ben presto come poeta. Allo scoppio della guerra si arruola tra i repubblicani e si sposta su vari fronti nel ruolo di agitatore culturale. Grazie a una licenza di tre giorni, nel 1937 si sposa con la ventunenne Josefina Manresa da cui avrà due figli che non conoscerà (il primo morirà subito). Partecipa anche al Secondo Congresso Internazionale degli Scrittori Antifascisti che si tiene a Madrid e a Valencia e poi è in URSS a rappresentare il governo della Repubblica. Alla fine della guerra tenta la fuga in Portogallo, ma la polizia di Salazar lo consegna a quella spagnola. Liberato grazie all’intervento del console cileno Pablo Neruda, viene nuovamente arrestato e condannato a morte. Su pressione internazionale di diversi intellettuali la condanna è tramutata in ergastolo.
Ostenda
Serge Veber, l’autore di Chanson de mariniers portata al successo nel 1933 da Jean Gabin, era parigino. Del resto, nessuna celebre canzone francese dedicata a città portuali è stata scritta da originari del luogo ma, molto spesso, da gente di campagna: non erano di Le Havre né Jacques Douai né Eddie Constantine (dai cognomi d’arte ricavati dai luoghi d’origine) non di Brest Jacques Prévert, né di Saint-Malo Hugues Aufray (ma entrambi di Neuilly-sur-Seine, località chiaramente fluviale). Del resto, era uomo di campagna il bardo dei pescatori bretoni Mac Orlan, nato nella Somme, ed è originario di Bordeaux Serge Lama autore dell’onnicomprensiva Les ports de l’Atlantique. Oltre che non olandese, il cantore del porto di Amsterdam Jacques Brel era originario di Schaerbeek, città di pianura vicino a Bruxelles. Mentre Léo Ferré, salmodiatore di porti nordici, è sì nato e cresciuto sul mare, ma nella mediterranea Montecarlo. D’altra parte, come diceva lui stesso riferendosi ai porti “ tutti i posti sono uguali ”…
Ed eccoci in Belgio, in terra fiamminga, con Comme à Ostende che è stata scritta da Ferré nel 1960 su testo dell’attore anarchico Jean-Roger Caussimon (non a caso parigino) amico dal 1940 e sodale già al tempo degli esordi (À la Seine e Monsieur William). Oltre allo stesso Caussimon, diventato cantante nel 1970, hanno inciso il brano Arno, Morice Benin, Anne Gacoin, Michel Hernon, Bernard Lavillier, Catherine Sauvage, Sapho, Serge et Sonia, Joan-Pau Verdier. Nella nostra lingua è stato registrato dal traduttore Enrico Medail e dal sodale artistico Franco Visentin.
Al fascino dei porti del Nord non sono rimasti insensibili nemmeno gli autori italiani: Amburgo viene celebrata da Vinicio Capossela e Calais dal jazzista Tito Fontana per le voci di Bruno Lauzi e poi di Milly. In un apposito recital Peppe Voltarelli si è invece esteso ai porti di tutto il mondo. Se ne trovano abbondanti tracce in questo disco.
A La Manic
La Manicouagan è una regione del Québec, scarsamente abitata (la città più grande, Baie-Comeau, fa 22.000 abitanti) che prende il nome dall’omonimo fiume. Qui, dall’autunno del 1959 fino al 1971, 18.000 persone hanno lavorato nei cantieri di un complesso di cinque centrali elettriche che prendono il nome di Manic-5 o, più semplicemente, La Manic. Costruito con due milioni di metri cubi di calcestruzzo armato, sfrutta il bacino di una diga larga 1.314 metri e alta 165, la più grande a volte multiple esistente al mondo. È denominata barrage Daniel-Johnson, dal nome del primo ministro del Québec, sostenitore della nazionalizzazione dell’elettricità, morto per infarto alla vigilia dell'inaugurazione. La Manic, oltre a produrre 2.660 megawatt di potenza, è diventata un’attrazione turistica durante la stagione estiva, con quattro visite guidate quotidiane di due ore ciascuna e con il Festival de la chanson de Tadoussac che raduna ogni anno più di 25.000 persone. È stata celebrata in un romanzo di Bob Morane Terreur à la Manicouagan e resa popolarissima da una canzone del 1966, basata su una lettera di un lavoratore del cantiere, scritta e interpretata da Georges Dor, attore, cantante, poeta, autore e regista. Il cantiere ha ispirato anche una seconda canzone, La Manic-5 di Félix Leclerc che, nonostante la fama del cantante, non ha vuto pari diffusione. Oltre che da altri interpreti del Québec come Lucien Hétu, Pauline Juliene, Donald Lautrec e Bruno Pelletier, il brano di Dor è stato interpretato in Francia da Jean Marie Vivier, in Belgio da Salvatore Adamo e Robert Cogoi e negli USA da Halsey. Con uno scarto deciso di latitudine ambientale, è stato ripreso perfino dalla star di Haiti Toto Bissainthe. Ma è entrato nella discografia internazionale grazie all’interpretazione dal vivo di Leonard Cohen nell’album Can't Forget: A Souvenir of the Grand Tour del 2016.
'Sta città
In un percorso basato sulla parola, ci si concede una parentesi strumentale con Daniele Caldarini, mente musicale dell’intera operazione. E lo si fa senza abbandonare gli autentici protagonisti del tragitto voltarelliano, quegli scenari cittadini in grado di stimolare emozioni e una serie di correlazioni e rimandi mentali.
A quale centro urbano si riferisce Peppe? Alla natale Cosenza? A Bologna, dove si è laureato? A Roma, Berlino, Napoli, Firenze, in cui ha poi vissuto? A Montréal, New York, Buenos Aires, Praga, Parigi, quei centri dove è più frequentemente trascinato dall’attività artistica? La domanda è forse inutile, non esiste una damnatio memoriae particolare: si tratta semplicemente della città come archetipo. L’onopatopea introduttiva, alla Palazzeschi, che si amalgama con la somma dei luogi comuni sull’argomento, dall’esaltazione all’insofferenza, potrebbe condurci in qualsiasi immaginaria polis europea, che è tutt’altro che il prototipo di una città ideale, bensì un agglomerato indistinto, privo di modelli o di connotazioni precise, somma indeterminata di occidente e oriente. Non a caso, il video ufficiale circolante in You Tube è stato girato nella Berlino Est (post-muro) con caratteristiche grafiche da socialismo reale e ‘Sta città, diventata Matka Mest nella traduzione di Michal Horáček, nel 2016 è stata prima in classifica nella hit parade della Repubblica Ceca grazie all’interpretazione di František Segrado.