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(foto di Ferdinando Scianna, da un suo volume in uscita per Squilibri, In viaggio con Roberto Leydi)
R. Leydi, L’Italia popolare in nastri
E' il momento di studiare le nostre tradizioni dal vivo del materiale registrato (La Fiera Letteraria 2 (11 gennaio 1968), p. 25).
Nel 1934 una spedizione scientifica (finanziata anche dalla fondazione ROckfeller) si spinse in Uganda con un apparecchio di registrazione su cilindri di cera della Discoteca di Stato per effettuare un raccolta di musiche indigene. Al suo ritorno in patria si constatò che le incisioni erano assolutamente inutilizzabili per la loro pessima riuscita. Così si concluse il primo tentativo italiano di utilizzare gli strumenti di reggistrazione meccanica del suono per la raccolta di musiche di tradizione orale. Nulla fu più tentato per quattordici anni.
Questo brillante risultato dimostra quale fosse il livello di preparazione dell’etnomusicologia italiana in quel tempo, anche nel semplice ambito tecnico. E va detto che nel 1934 il patrimonio di registrazioni etnomusicologiche era già stimato, negli Stati Uniti, a 17.000 documenti e in Europa gli archivi dei due istituti di Berlino e di Vienna contavano molte migliaia si incisioni, in gran parte realizzate da Bela Bartok e Zoltan Kodaly (tra il 1903 e il 1939), conservate presso l’Accademia delle Scienze di Budapest. In Italia, intanto, si continuava a far voti perché almeno il nostro patrimonio tradizionale incominciasse a venir investigato e fissato con mezzi tecnici adeguati e moderni.
Questi dati sono necessari per capire l’importanza di quanto è stato compiuto dal 1948 ad oggi. Partendo dal nulla, in una situazione difficile, sia culturale che economica e politica, i ricercatori italiani sono riusciti, in vent’anni, a realizzare un lavoro di grande consistenza sia per quantità che per qualità. L"opera più continuativa e intensa è stata compiuta dal Centro Nazionale Studi di Musica Popolare di Roma (ente patrocinato congiuntamente dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e dalla RAI-Radiotelevisione Italiana) che proprio in questi giorni compie i vent’anni.
Sotto la direzione di Giorgio Nataletti e con la collaborazione di Diego Carpitella, il CNSMP ha ammassto nei sui archivi oltre 12.000 documenti registrati (per lo più con ottimi strumenti tecnici forniti dalla RAI) in tuttte le regioni italiane. Se a questo “fondo”, che costituisce comunque la base, s’aggiungono alcune raccolte pubblicate (per esempio quelle della Discoteca di Stato che, da qualche anno, sta cercando di riguadagnare il tempo perduto) e private, si arriva forse a 20.000 registrazioni. Il valore di questo patrimonio non è soltanto numerico, ma soprattutto qualitativo, in grado di reggere più che adeguatamente il confronto con le maggiori collezioni straniere (almeno dell’Europa occidentale) che sono (alcune) più ricche e “storicamente” importanti, ma non altrettanto “moderne” per concezione di ricerca e livello tecnico.
Il problema che oggi si pone si fronte a questa massa di documenti sonori è quello della loro utilizzazione scientifica e della loro circolazione culturale. Lo stadio, inevitabilmente, del raccogliere “subito” il “più possibile”, prima che nuovi sviluppi socio-economici e culturali disperdessero definitivamente il supstite patrimonio tradizionale (legato al mondo contadino, pastorale, arcaico e paleo-industriale) è oggi superato. E’ venuto cioè il momento di procedere alla ricognizione e allo studio di questo materiale e alla sua divulgazione, nel vivo del dibattito culturale e delle rinnovate attenzioni scientifiche. L’enorme divario tra quantità di materiale raccolto ed elaborazione dei dati va colmato, a rischio di annullare un lavoro intenso, disinteressato ed appassionato di vent’anni.
Quindi c’è da domandarsi se la situazione è maturata per un’operazione ad ampio raggio, destinata a realizzarsi in un ambito culturale profondamente rinnovato, cioè non in termini archeologici e sempllcemente filologici, ma in un piu largo contesto, nel vivo di un dibattito non soltanto specialistico. Apparentemente la situazione appare favorevole. L’interesse per il mondo popolare è oggi abbastanza vivo anche in Italia (un Paese che non può certo contare su una tradizione di studi etnologici e antropologici) e le questioni relative alla comunicazione tradizionale hanno acquistato una certa presenza nella discussione culturale e persino (con le inevitabili strumentalizzazioni e distorsioni) anche nell’opinione pubblica.
Ciò che manca è la struttura scientifica capace di assumersi un simile compito, con tutte le sue implicazioni culturali e socio-economiche, oltre che specialistiche. Mancano i quadri, oltre l’esigua pattuglia di pionieri. Manca anche, forse, la volontà unanime di una scelta di politica culturale capace di incidere nella realtà, in confronto con la crisi dei valori comunicativi ed espressivi della cultura cosiddetta “superiore”, in una prospettiva che trascende l’interesse specifico e settoriale. Da alcuni segni parrebbe che una modificazione in senso positivo sia in atto. I prossimi anni ci diranno se la fiducia che ha guidato I pionieri nel loro lavoro di raccolta dei documenti è giustificata, se davvero la loro consapevole e inconsapevole convinzione di lavorare per una modificazione delle funzioni culturali e quindi delle strutture comunicative, sullo sfondo di un mondo in rapida e convulsa trasformazione, ha fondamento.
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R. Leydi, Dalle fortune del passato ai fenomeni del presente
Laboratorio di musica, 13 (giugno 1980), pp. 14-16.
La cronaca delle fortune, in Italia, della musica popolare ed etnica, nel corso almeno degli ultimi trent'anni, è ancora tutta da tracciare e forse sarebbe questa una fatica utile, non soltanto per «fare la storia», ma anche, e soprattutto, per capire il presente. Se, infatti, ci guardiamo attorno, in questi giorni che aprono il decennio dell'Ottanta, vediamo una serie di «fenomeni» che possono, al tempo stesso, muovere preoccupazioni e animare soddisfazione, sullo sfondo di una situazione generale che, lo sappiamo tutti, non propone molte certezze e, neppure, molti appigli per l'fondate previsioni
Questa serie di «fenomeni» può così essere schematizzata:
1). Sparizione quasi completa del «folk revival» tipo «anni Sessanta- Settanta» (modello Nuovo Canzoniere Italiano - Almanacco Popolare - Nuova Compagnia di Canto Popolare e relativi derivati, per intenderci), contestualmente alla crisi della nuova canzone politica, connessa del resto, ad una parte almeno del «folk revival» (modello, sempre per intenderci, Della Mea, Pietrangeli);
2). Emergenza (limitata anche geograficamente) di un «folk revival» di importazione (dalle esperienze francesi e irlandesi soprattutto), più o meno italianizzato, culturalmente o fragile o inesistente (pensiamo alla cretineria del «celtismo»), politicamente non motivato;
3). Confluenza di fatto del «folk» con intenzioni «creative» nell'indefinito, ormai, territorio del «pop-rock-jazz», e/o in quello dei cosiddetti «cantautori» (parlo dei figli «degeneri» della NCCP e di quelli coerenti del Canzoniere del Lazio, più altri, naturalmente);
4). Apertura consistente di interesse per la musica popolare ed etnica[1], con esecutori della tradizione (italiani, europei, di altri continenti).
In sé una situazione così delineata (in termini schematici, s'intende) non può non procurare soddisfazione in chi, in questi anni passati, ha operaio, anche attraverso canali e strumenti con qualche margine di ambiguità, per «usare» il «folk revival» come mezzo di provocazione culturale, nella direzione di un'acquisizione piena, attraverso i detentori legittimi della musica di tradizione orale, dei valori culturali, musicali e politici delle musiche popolari, etniche, della grandi civiltà dell'Oriente. Un ulteriore motivo di soddisfazione può venire dalla constatazione che molti dei musicisti e cantori popolari italiani che via via sono venuti apparendo nei concerti «urbani» di musica popolare hanno trovato nuova presenza nei loro specifici contesti, fino a configurarsi come occasione di ripresa, locale, di «vita popolare». Questa «funzionalizzazione» si colloca nel quadro di un più generale processo di ricerca di identità delle diverse comunità che, pur partecipi totalmente alla vita moderna, tentano di conservare una loro specificità che è elemento di ulteriore ricchezza e possibile strumento difensivo, almeno in parte, contro le pressioni omogeneizzanti. Ciò è avvenuto soprattutto con i suonatori, attorno ai quali, magari in disparte o addirittura dimenticati da alcuni anni, ha ripreso vita la pratica del ballo, con esiti, in alcune zone, di notevole consistenza e di prevalente partecipazione giovanile.
Tutto questo significa che il lavoro svolto tra la fine degli Anni Cinquanta e la metà degli Anni Settanta, giocando su diversi livelli (da quello del «revival» a quello dell'incentivazione della ricerca, da quello della riproposta dei musicisti popolari in ambiti «culturali» a quello dell'intervento degli enti locali, da quello della stimolazione politica a quello dell'azione «mondanizzante»), aveva rispondenza in una tendenza generale correttamente identificata (o, almeno, ipotizzata) e che la scelta di un arco ampio di intervento (senza prevenzioni) era, in sostanza, giusta. Certo rimane fermo in fatto che tutta questa operazione (operazione caratterizzante del «movimento» italiano, anche se in parte mutuata dalle esperienze antecedenti in America e in Gran Bretagna, e oggi osservata con molto interesse da altri paesi europei) si è sviluppata entro un sistema forte mente condizionato dalle regole consumistiche, attive sia oggettivamente (e con forze molto grandi e aggressive) sia, soggettivamente, anche nelle coscienze di quanti dicono di condannarle e di avere la capacità di non soggiacervi passivamente. Di qui le ragioni di preoccupazioni in questo presente che sembra offrirci larghe aperture d'attenzione per le musiche «altre» e vede il moltiplicarsi di iniziative in questa direzione.
Non si può tacere, in un discorso come questo, che, a differenza di altri paesi, il livello informativo, generale e specifico, sulla musica popolare ed etnica è, da noi, piuttosto basso. Il che propone rischi non indifferenti di iniziative tanto generose quanto scorrette, la cui conseguenza potrebbe anche essere una gran confusione e, quindi, un rigetto a breve scadenza di questa musica, contestualizzata nel sistema delle mode. Altrove, con il supporto di un'informazione più corretta, già si sono venute formando fasce di pubblico in grado di porsi di fronte alla musica popolare ed etnica con capacità selettive e critiche, capaci, cioè, di discernere il buono dal cattivo, il vero dal falso, esattamente come accade per la musica cosiddetta «classica», per esempio, entro la cui attività il margine di mistificazione è assai ridotto (ma non inesistente, d'accordo). In questo destino, la musica etnica e popolare potrebbe subire la stessa sorte (o anche peggiore) della musica «antica» (la cui riscoperta non è fatto indipendente dalla scoperta della musica popolare ed etnica); musica «antica» a proposito della quale è facile cogliere un livello elevato, oggi, di avventuroso dilettantismo. Tra l'insopportabile branduardismo e la ricerca seria s'esprime attualmente, da noi, un arco di attività e presenze non sempre delimitato da segnali distintivi evidenti a tutti che coinvolge, in una sorta di ambiguo neo-mediovalismo, o neo-rinascimentismo, un fatto musicale di proporzioni consistenti. In più c'è da dire che, se per la musica «antica» fonti informative e critiche serie pur esistono, per quella popolare ed etnica lo spazio della referenza ad ampia disposizione (così come l'eredità critica) è assai più ristretto. Con la conseguenza di un campo molto più libero alle iniziative dilettantistiche, espresse, magari, in buona fede. Basta vedere quanti ragazzetti con pochi rudimenti «orali» di musica «altra» si definiscono tranquillamente etnomusicologi, o etnomusicologi vengono definiti anche a livello dì pubblicistica autorevole. Quegli stessi giornalisti che non chiamerebbero mai cardiologo un infermiere del Policlinico, o italianista un diplomato di istituto tecnico, tranquillamente etichettano come etnomusicologo il primo giovanotto che, con un disco dei Chieftains in un mano e un disco di Ravi Shankar nell'altra, si dà da fare parlando, o scrivendo, o organizzando cose di musica popolare o etnica.
Non si vorrebbe che la troppo buona volontà di questi nuovi adepti della musica popolare ed etnica, in questo quadro di generale disinformazione e di generale approssimazione culturale, portasse ad un consumo rapido o anche rapidissimo, per cattivo uso, di una fascia di cultura musicale che, invece, merita il più grande rispetto e la più vigile prudenza, E ciò non soltanto, o tanto, per una preoccupazione moral-cultural-politica, ma anche in ragione della convinzione che un'acquisizione corretta, continuata, profonda di queste «altre» realtà musicali costituisce un arricchimento determinante per la nostra stessa coscienza musicale e culturale, non solo in termini «quantitativi», ma anche in termini di radicale modificazione del nostro modo di «sentire» la musica, tutta la musica, di porci innanzi la musica, tutta la musica. Compresa la «nostra».
Che il quadro in cui questo vivo interesse per la musica popolare ed etnica si colloca offra motivi di preoccupazione è mostrato da vari fatti che sono, già oggi, sotto i nostri occhi. E uno è, a mio giudizio, particolarmente segnalante.
Infatti, se la considerazione sulla scarsa preparazione di alcuni anche tra i più attivi «operatori» può correggersi nella fondata speranza di un progressivo acquisto dì conoscenze ed esperienze («Nessuno nasce professore», si dice giustamente e, aggiungo, non è necessario aspettare di essere «professori» per muoversi, agire, operare ed esprimersi), più problematica, è l'avvertibile tendenza, che oggi incomincia ad esprimersi, verso il privilegio dell’«esotico», nei confronti della musica popolare italiana. Nessuno può dire, ci mancherebbe altro, che nel filo del crescente interesse della musica degli «altri» non si debba aprire l'attenzione a tutt'intero l'universo musicale, ma si ha l'impressione che, ancora una volta, quanto più ci è vicino, quanto più è connesso alla nostra storia, alla nostra cultura e, perché no, ai nostri problemi, finisca in una specie di serie B, di nuovo votata al folklorismo, di fronte a quanto, invece, ci arriva da lontano e per il quale non potremo, inevitabilmente, che avere un'attenzione più esteriore, più superficiale, comunque meno coinvolgente, oltre i coinvolgimenti estetici ed emotivi. Un simile atteggiamento è il risultato di un allineamento alla situazione di altri paesi europei (penso in primo luogo alla Germania e alla Francia) dove, per motivazioni profondamente «reazionarie», non si è sviluppato, o si sta appena sviluppando, con fatica e senza riferimenti alle strutture accademiche, ufficiali e istituzionali, una considerazione nuova e socialmente attiva per il patrimonio etnico vivente e nazionale. In quei paesi l'attenzione per 1' «altro» si è, così, rivolta nei vecchi confini coloniali, ignorando quanto invece ancora c'era nei confini nazionali. Basta vedere di che cosa si occupa l'etnomusicologia tedesca o quella francese ufficiale per rendersi conto del nessun interesse per la musica popolare tedesca o francese. E, parallelamente, non è un caso che alcuni gruppi giovani e vivi, in Francia soprattutto, ma adesso anche in Germania, guardino all'esperienza italiana del secondo dopoguerra con un'attenzione tutta particolare, cercando di ricavare da questa esperienza stimoli per una parallela azione nei loro rispettivi paesi. Diversa, e vicina a quella italiana, la situazione in Gran Bretagna. Diversa ancora, e con una propria fisionomia (carica di problemi), la situazione nei paesi dell'est.
La vocazione all'esotismo segna, dunque, un oggettivo riflusso rispetto a quel movimento che, in Italia, su basi molto fragili, con il concorso di forze per lo più volontaristiche (almeno fino ad anni molto recenti), ha voluto affermare il valore preminente dell'attenzione verso la nostra realtà, in una prospettiva anche dichiarata di disegno politico, oltre che culturale. E segna, contestualmente, un cedimento alle tendenze neo-spiritualistiche che entrano a corrodere l'edificio della ragione portate sull'onda di emergenti concezioni mistiche e neo-religiose la cui presenza è ogni giorno più subdolamente avvertibile anche in fasce di coscienza laica e di sinistra. Certo sto esagerando, certo sto raffigurando una prospettiva distorta, ma non mi sembra lontano il momento in cui si realizzi una saldatura fra lo spiritualismo pieno di ambiguità politiche dell'irrazionalismo orientale e le tendenze restaurative e integraliste che crescono nell'area del folklore.
[1] Vorrei, ancora una volta, esporre le ragioni perché non mi piace la definizione di «musica, extra-colta», che continua a circolare. La distinzione dell'universo musicale in due grandi categorie: musica colta / musica extra-colta, a me pare tardiva conseguenza di unii mentalità europeo-culto-centrica. Una simile dicotomia, infatti, riconosce diritto di distinzione ad una delle tradizioni musicali dell'umanità, ponendo tutte le altre in una unica categoria, non meritevole (almeno in prima istanza) a riconoscimenti specifici. Cioè: da un lato alcuni secoli dì creatività e attività musicale delle egemonie culturali europee (musica colta), da un lato, tutte assieme, le tradizioni musicali, fra loro diversissime, delle classi popolari europee, dei popoli che abitano gli altri continenti, con le loro interne distinzioni di culto e popolare, del jazz, della musica di consumo. La definizione «extracolto» è mutuata, evidentemente, dalla definizione già ampiamente corrente «extraeuropeo», definizione che nasce e si configura proprio (anche storicamente) quale espressione dell'eurocentrismo dell'era dell'imperialismo euro-borghese. Un amico sudamericano mi diceva, tempo fa: «Che effetto vi farebbe, a voi europei, se vi trovaste definiti, da noi americani, come «extra-americani»? E allora, perché noi dobbiamo essere «extraeuropei»? C'è poi il fatto che quell'extra è ulteriormente ambiguo, in quanto può venir «sentito» (escluso che qualcuno lo voglia intendere come «super» «superiore» e, di conseguenza «supercolta») nel significato, del resto pertinente allo specifico uso, di «fuori», cioè come «fuori dell'area colta», nell'area del non colto. La qual cosa diventa assurda (anche nel quadro di una visione tradizionale di «livelli» culturali) se si pensa alla grande e «coltissima» tradizione della musica «colta» dell’Oriente dell'Islam, con tanto di teorizzazione, di scuola, di codificazione anche notativa (se pur in termini diversi da quelli della musica «colta» dell'Europa), di estetica esplicita, di referenza filosofica, di consapevolezza storica.
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R. Leydi, Inventandosi un passato fioriscono i Celti della Padania
La stampa-Tutto Libri del 23 maggio 1981
Arrivano i celti. Anzi sono già arrivati. Qualcuno, addirittura, dice che se ne stanno andando. Come succede per le mode. I celti redivivi hanno violini, ghironde, chitarre, flauti e percorrono i sentieri dei concerti e dei festival di musica cosiddetta “folk”, portando il loro 'messaggio’. Questi celti musicali sono di due categorie. Quelli che appartengono a un'area almeno un po' celtica, come lingua e come tradizioni e quelli che con la cultura celtica non c'entrano per niente e s'immaginano una patria perduta popolata appunto di celti. I primi sono i gruppi musicali bretoni, irlandesi, gallesi, più o meno collegati con i rispettivi movimenti autonomistici o indipendentistici, impegnati a far musica, far soldi (se ci riescono) e far propaganda.
Alle loro spalle c'è una tradizione, c'è una storia, in alcuni casi c'è anche un insegnamento musicale autentico, spesso conosciuto e riproposto non soltanto con amore, ma anche con rispetto. Per esempio i gruppi bretoni non sono tutti sciagurati come Alain Stivel, ma molti portano nei paesi di Bretagna, in Francia e in Europa testimonianze di buona musica, suonata come la tradizione vuole (o quasi), con gli strumenti che ci vogliono. Più fantasiosi gli irlandesi, cioè, secondo le loro intenzioni, più “creativi”.
Poi ci sono gli altri: gli aspiranti celti. Il “celtismo”, infatti, sembra essere, in Italia, l'erede del “tarantellismo”. Il “tarantellismo” esplose al seguito delle fortune della Nuova Compagnia di Canto Popolare, invadendo ogni raduno giovanile, con risultati che volevano essere gioiosi e festosi e non erano che rattristanti. Tramontata la tarantella, ecco la musica celtica. Magica etichetta che s'attacca a due tipi di gruppi musicali nostrani: quelli che copiano i celti veri (o quasi veri) e quelli che s'inventano il celtismo italiano. I primi non sono che degli imitatori, modesti, di una musica che a loro giunge, per lo più, di seconda o terza mano. Essi, cioè, non suonano, più o meno bene, musica bretone o musica irlandese, ma, sempre più o meno bene, una copia di musica bretone o irlandese, tirata giù dai gruppi che già travisano (o “creano”).
Gli altri costituiscono un problema e un fenomeno più interessanti, a livello sociologico, non musicale. Gli ansiosi ricercatori del celtismo italiano, infatti, vogliono ad ogni costo affermare l'esistenza, fino alla musica popolare d'oggi, di una eredità celtica anche da noi. E ciò per dichiarare un valore di etnia contrapposto a quello latino, o gallico, o ligure, o veneto.
C'è da chiedersi per quale motivo (che non sia il fascino del celtismo irlandese, con il suo successo commerciale e le sue implicazioni anche drammaticamente politiche) questi volonterosi ragazzi, volendo trovarsi radici antiche, si rivolgano proprio ai celti, cioè al popolo che sembra aver lasciato meno segni del suo passaggio (oltre tutto marginale) nell'Italia del Nord. Perché non fare musica ligure, per esempio. Tutti gli abitanti dei paesi che finiscono in “osco” (da Bogliasco in Liguria a Pettenasco nel Novarese) potrebbero con più legittimità rivendicare una etnìa ligure (e quindi pre romana) e fondare la loro ‘diversità’ su un minimo dato di fatto. Ora noi sappiamo che i celti hanno lasciato il loro dubbio segno in poche decine di parole dei dialetti alpini, la qual cosa non è molto per costruirci sopra un revival culturale e una musica popolare.
La verità è un'altra. E' che per far finta di essere celti basta copiare un po' il sound dei celti veri, mentre per riscoprirsi liguri, o salassi, o cenomani il problema è un po'più difficile.
Naturalmente attorno a questo celtismo italiano fiorisce una finta filologia. Un gruppo musicale di questo filone (che, però, fa quasi esclusivamente copiatura di musica bretone e irlandese) si è dato per nome “I Celtig”, assicurando che nel Pavese “parla cèltig” vuol dire “parlare in dialetto”. Naturalmente il dato non risulta a nessun linguista e ho il sospetto che dietro ci sia la geniale e affascinante immaginazione filologica di Gianni Brera, gran maestro di invenzioni archeologiche e antropologiche non soltanto a proposito di San Zenone Po, il suo paese, ma un po' di tutta l'area milanese-pavese.
In tanti anni di lavoro sulla musica popolare dell'Italia del Nord devo confessare di non aver mai trovato segni di relazione con quanto altrove rimane della musica celtica. Ma adesso che una rivista che si intitola Etnie (e raccoglie tutti i ‘gridi di dolore’ delle minoranze vere e inventate) annuncia un saggio musicologico, con disco, sulla musica celtica della Valle Padana sono in ansia. Che davvero dobbiamo tutti ricrederci? Che davvero i celti sono ancora tra noi e noi non li abbiamo riconosciuti?
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Con la scomparsa di Valentino Paparelli, avvenuta nella notte del 6 marzo, abbiamo perso un amico carissimo e una fonte straordinaria di conoscenze e saperi. Impossibile, nel suo caso, separare gli aspetti privati da quelli pubblici perché per lui studio e ricerca sono sempre stati parte costitutiva del suo stesso essere, espressione irrinunciabile di uno sconfinato amore per la vita che ha manifestato in tutti i campi in cui si è cimentato, dall’alpinismo alle rilevazioni sul campo, dalla militanza politica al servizio prestato nelle istituzioni a difesa del bene comune.
Impossibile a svilupparsi nel clima rarefatto di una serra, questo amore si è declinato da subito nelle forme più alte di un impegno civile che, avvertito come inevitabile rispetto alle contraddizioni del mondo, per lui comportava innanzi tutto l’obbligo di ulteriori approfondimenti critici, l’inesausto esercizio di un rigore razionale che non poteva acquietarsi nel carattere consolatorio di facili dichiarazioni di parte né, tanto meno, sciogliersi nella presunta oggettività di una ricerca che non è mai neutra: da qui la sua magistrale ricostruzione delle forme espressive della tradizione umbra destinata a costituire un punto di riferimento obbligato per chiunque voglia accostarsi a quei repertori e agli uomini che ne sono stati i depositari; da qui l’originalità di alcune esperienze di “ricerca-intervento” condotte con l’amico Sandro Portelli negli anni ‘70. Da questa tensione umana e intellettuale che ha caratterizzato tutta la sua vita discendeva anche la sua indignazione morale per l’improvvisazione, la sciatteria e il dilettantismo che sembrano invece contrassegnare, in tutti i campi, questo nostro presente, nella ricerca come nelle istituzioni.
Per tutto questo oggi siamo tutti desolatamente più poveri ma per le stesse identiche ragioni, asciugate le lacrime e ricomposto il dolore come lui stesso avrebbe voluto che facessimo, dobbiamo ora riprendere il cammino da dove ci ha lasciato, portando a termine l’opera alla quale lavorava con Piero Arcangeli ancora sul letto d’ospedale: l’edizione critica della raccolta 33 realizzata in Umbria nel 1956 dal loro comune maestro Tullio Seppilli assieme a Diego Carpitella. Soprattutto, con o senza l’intervento delle istituzioni competenti, realizzare il progetto che più di ogni altro gli stava a cuore, l’Archivio Sonoro Musiche di Tradizioni dell’Umbria al quale lavorava già da mesi.
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A dieci anni dalla scomparsa di Roberto Leydi, in attesa di altre iniziative editoriali che ne attestino la straordinaria capacità di coniugare ricerca e spettacolo, vorremmo ricordarne lungo tutto l'anno (con una successione di articoli pubblicati sui principali quotidiani e periodici italiani), la fecondità del suo essere intellettuale nella realtà del tempo, pronto a guardare oltre i confini di una disciplina scientifica per misurarsi con quanto la musica (tutta la musica) rappresenta nella vita degli uomini.
R. Leydi, I SUCCESSI e GLI ERRORI DEL FOLK ITALIANO, DOPO I FURORI DELLA TARANTELLA
La stampa, 15 giugno 1979
Non c'è dubbio che uno degli elementi caratterizzanti della vita culturale italiana degli ultimi vent'anni (dalla fine degli Anni Cinquanta) sia stato il progressivo recupero di interesse per la cultura del mondo popolare. E ciò da molti punti di vista, da quello scientifico a quello consumistico. L'arco delle attenzioni che sono state e sono rivolte alle manifestazioni culturali delle classi popolari è molto ampio e va a confondersi quasi, da un lato, con la moda ecologica, mentre, dall'altro, si insinua nella più viva e avanzata ricerca storica. Dal folklore come ambigua realtà «ruspante» al folklore come apertura di nuovi orizzonti anche ideologici al dibattito culturale. Ma se la ricerca e lo studio vanno bene, con un'attività che, ovviamente, ha i suoi dislivelli di qualità ma produce risultati anche importanti e .spesso emozionanti (sullo sfondo di un accademismo da liceo classico finalmente in crisi), in quella fascia che volgarmente viene etichettata come folk, e riunisce molte iniziative sia evidentemente commerciali che ambiziosamente culturali, regna una notevole confusione.
Il momento «eroico» degli Anni Sessanta, connotato anche vivacemente soprattutto dal lavoro del Nuovo Canzoniere Italiano e portato alla ribalta di un'attenzione di massa dallo «scandalo» di Bella ciao al Festival di Spoleto, nel 1964, è ormai definitivamente concluso. Fenomeno proprio di fasce giovanili, il folk revival offre ai ragazzi di oggi una memoria molto impallidita (o addirittura svanita) di quei suoi anni cosi lontani sul calendario sempre più veloce dello sviluppo generazionale. E al passato, in fondo, appartengono anche gli eventi e i personaggi del periodo successivo (del periodo, cioè, della prima metà degli Anni Settanta) che ha visto svolgersi il gioco di varie tendenze più o meno vicine o più o meno lontane: l'eredità radicalizzata in senso politico del Nuovo Canzoniere Italiano; lo sviluppo in senso di fedeltà musicale ai modi tradizionali di quella stessa esperienza; la proposta seducente, musicalmente vivissima (e commercialmente fortunata) della Nuova Compagnia di Canto Popolare; le ricerche di contaminazione e di «creatività» del Canzoniere del Lazio. Non è, certo, un elenco completo, ma credo che in questi quattro filoni si possa, emblematicamente, condensare il senso del lavoro del nostro folk revival in quel periodo di transizione. Lasciando perdere, com'è doveroso, i cascami e le avventure banalmente commerciali.
Se questo è il «passato», se questo è dietro di noi (magari non tanto dietro di noi cinquantenni, ma certo dietro ai ventenni e ai trentenni), qual è il presente di questo lavoro sulla musica popolare che non appartiene all'ambito dell'impegno scientifico, ma non può esser messo fuori dal panorama degli interessi per il mondo popolare che animano tante fasce di pubblico oggi? Non so se è effetto dell'età (oggi si invecchia, culturalmente, assai velocemente), ma a me il panorama non appare per nulla promettente. Soprattutto non appare ricco di fermenti innovativi, come invece negli anni fra la fine del decennio del Cinquanta e i primi anni degli Anni Settanta. Che cosa ci offre, infatti, il menù? Cerchiamo di esplorarlo insieme. Il «napoletanismo» (lanciato dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare) un po' regge ancora, ma il «furor tarantellistico», distintivo del raduni giovanili di cinque o sei anni fa, a suon di tamburello, è giustamente in forte declino. La NCCP va ancora in giro, certo, e ha tuttora un suo pubblico, ma si tratta di un nobile monumento che va avanti sull'inerzia di una fortuna commerciale che, onestamente, è giusto sfruttare fino in fondo. Ma di nuovo e di vivo ha ben poco da dire. Questo straordinario «strumento» musicale, reso vivo da quell'uomo di genio che è Roberto De Simone, ripete la vecchia sonata. E lo stesso De Simone, del resto, ha trovato una più stimolante strada alla sua ricerca (che è, al tempo stesso, ricerca scientifica e ricerca di spettacolo) nelle realizzazioni teatrali quali La gatta Cenerentola, Mistero napolitano e Li zite 'n galera, un'opera buffa settecentesca che andrà in scena martedì 19 al Maggio Musicale Fiorentino. La bandiera del «napoletanismo» «creativo» è passata a un trasfuga della NCCP: Eugenio Bennato. E cioè a Musica Nova, il gruppo che tenta di saldare modalità popolaresche con ambizioni di creazione musicale urbana, attuale, magari tesa all'«avanguardia». A Bennato e ai suoi estimatori potrà apparire un giudizio grossolano (e un po' grossolano certo lo è, ma bisogna pur intendersi), ma a me la sua Musica Nova non sembra davvero una proposta più avanzata rispetto a quella buttata a suo tempo sul tavolo dal Canzoniere del Lazio.
La bandiera (gloriosa e lacera, ma anche stinta per il passare di troppe stagioni e non soltanto per l'infuriare di tante battaglie) del Nuovo Canzoniere Italiano non raccoglie più le masse, né nella sua versione prepotentemente politica, né nella sua versione più mediatamente ideologica. Giovanna Marini offre sempre un saggio di gran temperamento teatrale ogni volta che torna sulla scena, ma il suo talkin' blues all'italiana non accende ormai più sorprese e il suo generoso inseguimento di risultati squisitamente musicali si fa sempre più distanziare da altre ricerche e altre prove, in campi non compromessi con la musica popolare. Caterina Bueno certo trasmette tuttora emozioni quando canta di cose toscane, ma la sua Toscana ci sembra pateticamente remota, datata a giorni perduti. Sandra Mantovani ha smesso di cantare, constatato l'esaurirsi delle motivazioni che, fin dalla fine degli Anni Cinquanta, fra i primissimi, l'avevano spinta a farsi cantante e a promuovere, con pochi altri, l'avvio di un movimento.
Se, da un lato, il rifiuto ormai dominante per la canzone politica (non sarà riflusso, ma qualcosa del genere sarà) ha buttato ai margini il folk militante, dall'altro il massiccio arrivo di esperienze straniere, soprattutto francesi e inglesi, ha spinto gli eredi della «scuola del ricalco» (di quanti, cioè, ritenevano che bisognasse rispettare, nella riesecuzione dei canti e delle musiche popolari, i modelli stilistici della tradizione) verso la musica strumentale, più o meno «celtizzata», aspirando anche al coinvolgimento del gran ballo collettivo. Il fenomeno di questi gruppi (alcuni buoni, molti pessimi) è soprattutto vistoso in Piemonte, mentre altrove non sembra trovare sufficienti motivazioni. Ma quest'aria corre un po' dappertutto, nell'ansia di affiancare al «tarantellismo» il «monferrinismo», nell'intento di porre accanto alla riscoperta dei balli meridionali (ballati, per la verità, in modo molto ma molto approssimativo) la riproposta di quelli settentrionali. Un quadro poco allegro? A me pare. Ma forse, sotto sotto, qualcosa di vivo corre. Bisognerebbe distinguerlo. E parlarne ancora.