Paola Pisano
Alberto Baldi
Magnifici mirabili Misteri
Forme e significati dei riti della Settimana Santa procidana
2015, € 20
Formato 20x20, 94 foto a colori, pp. 171
In offerta con il 5% di sconto
La Settimana Santa di Procida ha nella processione dei Misteri il suo acme. Tale processione, policroma, fortemente teatralizzata, coagulo di molteplici istanze ed aspettative della parte marinara e terrestre dell’isola, al contempo liturgiche e devozionali ma pure laiche e secolari, si identifica nel maestoso sfilare di gruppi statuari portati a spalla, i Misteri, appunto, ogni anno rinnovati, ispirati dai temi della Passione di Cristo ma, allo stesso tempo, dall’attualità.
Frutto di due anni di lavoro, il volume tenta quindi una lettura delle festività pasquali procidane che, dalla consueta impostazione di un’agiografia strettamente religiosa, cerca di cogliere in una prospettiva antropologica gli investimenti di una popolazione procidana che, a differenti livelli di coinvolgimento, individua nella lunghissima, lucente e sfinente processione un’opportunità di riaffermazione identitaria, attentamente declinata e giocata su molteplici e diversi piani.
Indagini archivistiche e bibliografiche per salvaguardare lo spessore plurisecolare della manifestazione hanno poi lasciato il passo, sul piano sincronico, ad interviste a testimoni privilegiati ed a comuni partecipanti all’evento. Un’estesa documentazione fotografica si è resa altresì necessaria per cogliere la macchina festiva nelle sue ricche implicazioni semantiche: sono state seguite le fasi di progettazione, impostazione e realizzazione dei gruppi statuari, documentando quindi il loro inserimento nella trama festiva, il loro farsi elemento focale e centripeto del rito.
Dal saggio di Alberto Baldi, I tratti della Settimana Santa ad una prima osservazione
L’intrinseca vistosità di un evento festivo che per realizzarsi compiutamente necessita di una ‘platea’ che ne accolga e decritti gli assunti, la dinamica, la dimensione teatrale, gli scopi – platea divisa tra officianti, organizzatori ed attuatori della macchina festiva, e recettori dell’evento, coro, cornice attiva dell’episodio festeggiato – è prerequisito indispensabile. Se la festa può definirsi, pur nelle sue molteplici e più late declinazioni, come momento di intensa comunicazione che attraverso un articolato reticolo di ruoli lega a sé una comunità, un paese, un quartiere, una città, tale comunicazione passa attraverso moduli necessariamente appariscenti, capaci, essi stessi, di farsi ben visibile simbolo condiviso e strumento, al contempo, agglutinante e dirimente, intorno al quale si esplicita e si dipana il rito. Da sempre la magniloquenza dell’istituto festivo, la sua obbligatoria appariscenza sono prerequisiti indispensabili a raggiungere la piazza, a farsi megafono capace di parlare alla moltitudine delle persone convenute, ad essa dichiarandosi e da essa facendosi riconoscere, valutare, giudicare. L’enfasi nell’ impianto scenico, nelle coreografie, nella recitazione, nella mimica, nei registri musicali e sonori, dunque in quell’articolato mélange di modalità mediante le quali la festa ‘parla’ ai convenuti, è mezzo indispensabile alla realizzazione degli intenti ultimi a cui l’apparato festivo risponde, quale strumento di reiterata fondazione identitaria.
La Settimana Santa procidana che nel corso della sua antica storia si è data percorsi processionali complessi, serpentiformi, avvolgenti ed intersecati, quasi nodo gordiano che stringe a sé indissolubilmente i partecipanti in un lungo, cadenzato, faticoso, sofferto cammino, attraverso questo lapidario e grave suo incedere, si garantisce una visibilità a tutto tondo, quasi imposta alla comunità, invasa, schiacciata, bloccata lungo i muri delle strette vie dell’isola dal volutamente ingombrante e lento passaggio del corpo processionale.
La medesima natura dinamica di cui il rito non può fare a meno, appare circoscritta ad arte nei ristretti confini di una sorta di cinetica ipostatizzata, imbrigliata, che prolunga l’attesa caricandola di aspettative per il passaggio del corteo che gioca, appunto, sul suo farsi attendere, sul suo progressivo disvelarsi, sulla sua definitiva entrata in scena, sul suo filamentoso uscirne che si rifonda subito dopo nel suo nuovo ripresentarsi al crocicchio successivo, nello slargo seguente. Il passo dei confratelli appare quasi trattenuto e le stazioni nelle quali essi debbono dare vita alle scene previste dal palinsesto festivo – la lavanda dei piedi, l’ultima cena, il trascinamento delle catene, l’ossequio al crocifisso giù al porto – assumono più il carattere di quadri viventi che di soluzioni recitative strutturate intorno ad una loro intrinseca dinamicità. Anche l’elemento performativo, ossia il contributo attoriale alla festa, sembra quindi contenersi, mettersi la sordina; l’azione più che distendersi in un reticolo conseguenziale di comportamenti e situazioni, si cristallizza. Si tratta di una convenzione comunicativa propria dei contesti popolari e che si esplica anche al di fuori dei riti festivi. La foto familiare ne è in tal senso un chiaro esempio, foto che necessita anch’essa di figure e fondali, foto ove per i soggetti era quasi d’obbligo irrigidirsi nel momento dello scatto, non tanto e non solo per problemi di natura tecnica, per esigenze dettate da tempi di otturazione relativamente lunghi, quanto per dichiararsi nettamente, senza equivoci, al destinatario di quel ritratto. Perché l’immagine attentamente controllata di sé e messa in scena nello studiolo di un fotografo di paese rispondesse a quell’identità che si intendeva rappresentare e trasmettere mediante il ritratto fotografico, era di grande ausilio una postura rigida e peraltro frontale, di faccia alla macchina. I soggetti posavano come tante statuine la cui fissità ne favoriva la leggibilità nella direzione da loro stessi auspicata. Foto di parata con i simboli, che dovevano efficacemente contribuire a semantizzare l’immagine, scelti e disposti con cura sulla scena: suppellettili più o meno ridondanti, vasi di fiori, libri, tappeti, pellicce, ed ancora orologi al panciotto, penne e fazzoletti ben piegati nel taschino, collane, orecchini, borsette, scarpe tirate a lucido, mani con le unghie nette e linde posate, anzi, esibite sulle gambe quali segni di un presunto benessere piccolo-borghese, ma pure abbracci, teste piegate a sfiorare quelle del soggetto al fianco per suggerire un legame affettivo, bimbetti in piedi, tra le gambe del padre o del nonno seduti dietro di loro a ribadire una discendenza maschile in una logica di indiscusso patriarcato. Una corporeità simbolica e vistosa che si affida all’immediata decrittazione del suo corredo segnico mediante il quale si definisce e si riafferma nella comunità di appartenenza.
La foto familiare ne è in tal senso un chiaro esempio, foto che necessita anch’essa di figure e fondali, foto ove per i soggetti era quasi d’obbligo irrigidirsi nel momento dello scatto, non tanto e non solo per problemi di natura tecnica, per esigenze dettate da tempi di otturazione relativamente lunghi, quanto per dichiararsi nettamente, senza equivoci, al destinatario di quel ritratto. Perché l’immagine attentamente controllata di sé e messa in scena nello studiolo di un fotografo di paese rispondesse a quell’identità che si intendeva rappresentare e trasmettere mediante il ritratto fotografico, era di grande ausilio una postura rigida e peraltro frontale, di faccia alla macchina. I soggetti posavano come tante statuine la cui fissità ne favoriva la leggibilità nella direzione da loro stessi auspicata. Foto di parata con i simboli, che dovevano efficacemente contribuire a semantizzare l’immagine, scelti e disposti con cura sulla scena: suppellettili più o meno ridondanti, vasi di fiori, libri, tappeti, pellicce, ed ancora orologi al panciotto, penne e fazzoletti ben piegati nel taschino, collane, orecchini, borsette, scarpe tirate a lucido, mani con le unghie nette e linde posate, anzi, esibite sulle gambe quali segni di un presunto benessere piccolo-borghese, ma pure abbracci, teste piegate a sfiorare quelle del soggetto al fianco per suggerire un legame affettivo, bimbetti in piedi, tra le gambe del padre o del nonno seduti dietro di loro a ribadire una discendenza maschile in una logica di indiscusso patriarcato. Una corporeità simbolica e vistosa che si affida all’immediata decrittazione del suo corredo segnico mediante il quale si definisce e si riafferma nella comunità di appartenenza.
Una corporeità ancor più ribadita perché ora fortemente volumetrica, solida, tridimensionale, tangibile, stentorea, che si realizza nella sua fissità di luminoso, non ignorabile simulacro, ritroviamo nei riti pasquali procidani e, specificamente, nella suntuosa sfilata dei Misteri. Rispetto alla foto il Mistero si fa exemplum tridimensionale dell’adesione ad una liturgia ma parimenti ad un consesso sociale in cui da un lato ci si omologa ma al contempo ci si distingue, pur nell’ambito delle opportunità concesse dalla festa. Il Mistero porta infatti in processione gli intenti di coloro che lo hanno ideato e costruito. Tali intenti che l’ordito simbolico di ogni singolo gruppo statuario ha il compito di rendere palesi, debbono rispondere, dunque, a funzioni didattiche e didascaliche con ammesse variazioni sul tema, ma pure, nemmeno troppo surrettiziamente, ad esigenze di distinzione sociale attraverso certuni caratteri dell’apparato che si è inteso realizzare. Croci, sudari, dadi, catene, lance, pani, pesci, impianti scenici che alludono alle navate di una chiesa, teorie di colonne che evocano un tempio, ribadiscono l’ortodossia religiosa in seno alla quale i Misteri hanno l’obbligo di comporsi e strutturarsi intorno ad uno o più temi. Ciò detto la loro dimensione possibilmente tutt’altro che trascurabile, il realismo meticoloso delle decorazioni, la ricca e squillante policromia di arredi e statue, la loro quantità, la loro disposizione, la loro vocazione espressiva, in ultima analisi la capacità del Mistero di farsi particolarmente apprezzare e di stupire rappresentano un traguardo a cui i costruttori mirano per distinguersi dagli altri, per farsi un nome, per confermare la propria centralità ma anche la propria supremazia in seno all’enclave di coloro che a vario titolo, ed in base a competenze diverse, sono ammessi alla progettazione, alla costruzione ed alla conduzione in processione dei Misteri. Misteri, perciò, che per consentire il raggiungimento di tali obiettivi, si debbono fare palesi, Misteri, potremmo dire, disvelabili, da osservare dappresso, da ogni angolazione, con agio, con attenzione, dandosi tutto il tempo necessario. In ciò palchi e palchetti sacri condotti in processione a Procida con il loro corollario performativo si fanno sintesi paradigmatica di certune concomitanze etimologiche del termine che tradizionalmente li definisce, quella di ministerium da intendersi come ufficio, rappresentazione liturgica pubblica, palese, esplicita, pedagogica e spettacolare che parimenti si ammanta di venature inesorabilmente misteriche e magiche essendo nei fatti messa in scena di eventi soprannaturali, dell’incarnazione, della resurrezione, in ciò recuperando i significati propri del termine μυστηριον che significa, appunto, segreto, mistero divino e come tale anche dogma.
Ecco allora che il Mistero si obbliga ad andare incontro alla gente, a raggiungerla, lambirla, sovrastarla, offrendosi generosamente allo sguardo altrui, proponendosi in un faccia a faccia perché tutti possano adeguatamente soppesare la sua immagine, apprezzare la sua vistosità. In un autentico brulichio di simboli che si reiterano, si moltiplicano, si intrecciano, si distinguono di Mistero in Mistero, lungo il percorso processionale in cui le statue ed i palcoscenici sui quali sono disposte si susseguono in un affollato continuum plastico e cromatico, tutti attendono la novità, il particolare impatto volumetrico, la miglioria pittorica o scultorea, l’arditezza o l’eleganza dell’impianto scenografico, capace di imporsi agli occhi della folla dei fedeli, sempre attraverso quell’obbligato vis à vis a cui il Mistero ed il suo spettatore si costringono nelle anse, nei gomiti, nelle strettoie di un percorso anch’esso volutamente angusto. La gente, insomma, vuole vedersi venire incontro, uno dopo l’altro, con calibrata flemma, ogni Mistero per poterne saggiare la sapidità iconica, la complessiva possanza, la vocazione emozionale, il rapporto con la tradizione e con il passato, per applicarsi nella decrittazione dell’intreccio dei simboli esposti, meglio se ricombinati in trame sia esplicite che misteriche, antiche ed attualizzate, allusive e, quindi, maggiormente intriganti. Il Mistero appare dunque come l’ombelico della festa, la variabile indipendente, l’elemento catalizzatore che caratterizza, scandisce e ritma il percorso processionale.
Dalle fotografie di Paola Pisano
Paola Pisano ha all’attivo volumi sui suoi fotoreportage in Cina, Indonesia, Thailandia, India, Nepal, Brasile, Perù e Bolivia. Molte le mostre personali e collettive nelle quali ha ottenuto premi e riconoscimenti in ambito nazionale ed internazionale.
Alberto Baldi Docente di Antropologia culturale e di Etnografia visuale e nuovi media presso la Federico II di Napoli, coltiva quali ambiti di consolidato interesse l’antropologia visuale, la documentazione delle culture marinare ed alieutiche e la museografia antropologica.