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Ho un progetto che mi sta a cuore: la realizzazione di un CDbook, come si usa dire oggi, per un lavoro di ricerca sulle radici musicali della (mia) terra “Equo-Simbruina”. È un’ampia zona del Lazio Centrale, attorno alla parte superiore del bacino dell’Aniene, una terra di caratteri e costumi ciociari, anche se non fa parte della Ciociaria in senso stretto. Una zona sostanzialmente montuosa che dalla dorsale dei monti Simbruini, Cantari, Ernici -attraverso i monti Affilani, Ruffi e Predestini- si estende fino ai monti Tiburtini, Lucretili e Cornicolani. Territorio (al di là di Tivoli) degli antichi Equi, quella popolazione di Prisci Latini (cioè Latini di prima della fondazione di Roma), stanziata tra i territori (confinanti, limitrofi o viciniori) di Volsci, Ernici, Equicoli, Cicolani, Sabini, Marsi…
Per ora è solo un primo accenno di progetto. I luoghi della ricerca sono Trevi nel Lazio e Filettino, nella provincia di Frosinone, e Jenne, Vallepietra, Arsoli, Affile, Arcinazzo, Anticoli Corrado, Vicovaro, San Polo dei Cavalieri e Marcellina, in quella di Roma. Una striscia di territorio montuoso che, dopo Vicovaro, non seguiamo più lungo il fiume ma deviando un po’, inseguendo soprattutto le tipologie di suoni e di canti e di zampogne: quindi non ci dirigiamo verso Tivoli ma verso San Polo per fermarci a Marcellina, terra di confine da sempre, all’inizio del territorio dei Sabini. Gran parte del materiale da pubblicare proviene dalle mie “registrazioni sul campo”, realizzate soprattutto negli anni Settanta. Altre ricerche (e relative registrazioni sul campo) le ho fatte in tempi recenti, recentissimi. Poi, ultime ricerche intendo farle ancora, all’inizio della primavera 2006, assieme ad Alessandro Mazziotti che, essendo un giovane virtuoso di zampogna di ciaramelle e di flauti, riesce a far rivivere ricordi e canti nei vecchi cantori… Zampogne perché in tempi non molto lontani questo territorio era dominato dai suoni di zampogne: ma le ultime “sampiche” le abbiamo ritrovate nei mesi scorsi.
La zampogna ha accompagnato tutte le espressioni musicali di queste genti, ne ha influenzato il modo di cantare, di tenere i suoni lunghi e nasali. È stata presente in ogni convivio nuziale, in ogni occasione di danza, in ogni serenata, nei mattutini, nei vespertini, nel cantare la partenza, la solitudine, nelle processioni e in altre feste religiose. Attraverso la musica degli zampognari, fondamentale espressione artistica della civiltà pastorale, si ha la possibilità di risalire intuitivamente quasi a una preistoria musicale. Il filo diretto è proprio la “sampogna”, strumento primordiale, rimasto più o meno inalterato nel corso dei millenni, sia nella struttura che nei modi di impiego.
Andare dunque “alla ricerca di suoni perduti” che sono naturalmente quelli popolari -canti, nenie, sonate, strumenti- ma anche forme linguistiche dialettali -motti, detti, espressioni, formule magiche, giaculatorie, non-sense- con il suono così “musicale” della cadenza dialettale. Ma anche “fonosfere” di lavoro: i cavallari, i mulattieri, i bovari, i pecorari ripresi proprio mentre “operano”, gridano, bestemmiano, incitano gli animali, e anche uccellatori (personaggi di altri tempi) mentre lanciano i loro richiami.
Il repertorio sarà quello ricorrente in tutto il Lazio: canti della mietitura e arie di campagna, spesso nella forma “a recchione”, a “chiamata e risposta”; canti “a la biforghetta”, “a la carrara”, canti dei bovari e dei butteri, dei pastori; stornelli e fiori e forme “a la longa”, “a la stesa”; canti vari in ottava rima, “a la poeta”; invocazioni “magico-religiose” e invocazioni perché venga la pioggia; filastrocche infantili, “conte”, ninne nanne, proverbi e detti; canti religiosi, storie di santi ecc. E poi la musica strumentale: le zampogne della valle dell’Aniene, organetti e fisarmoniche ed anche l’armonica a bocca. E la serenata con la zampogna, e quella con l’organetto. E poi naturalmente il tamburello, di varie fattezze, a ritmare il saltarello, danza e forma ritmica fondamentale.
Riguardo al materiale iconografico, credo sia straordinario e in buona parte sconosciuto ed inedito come, per esempio, una ‘fotoricordo’ della seconda metà dell’Ottocento. Ero a Trevi nel Lazio, nel marzo del 2003, e pochi minuti dopo il mio bussare alla sua soglia per chiederle “notizia” sui vecchi suppòrtichi (sorta di androni-portoni comuni a più abitazioni) del paese di mia madre, una vecchia signora di 94 anni mi ha fatto entrare in una cameretta, e mi ha mostrato, incorniciata al muro, una foto di sua nonna, seconda metà dell’Ottocento: una vecchia donna con la faccia a rughe profonde profonde, atteggiamento superbo, ai piedi “ciocie” con punte molto appuntite, calzari da giorno di festa…
Vorrei insomma raccontare bene i suoni di una “fetta” della mia terra natale, della terra dei miei avi materni: l’Alto Aniene, a partire dalle sorgenti (Anio in Monte Trebanorum Ortus), fino alla piana sotto i colli Cornicolani, ai confini con la Sabina. Terra di pastori e contadini; e musicalmente di zampogne e in seguito di organetti. Sonatori, cantori, ma anche uomini che sanno (sapevano) “parlare con gli animali”. Non imitatori, ma persone che convivevano con gli animali e ne imparavano i “linguaggi”.
Non c’è mai stata, mi dicono, in questa fetta di terra, la figura dell’“uccellatore” ma c’era chi sapeva richiamare gli uccelli, dialogare con loro, parlare ai cavalli, alle pecore, ai bovi. Sentite Giovanni Germani, detto Fagotto, che “parla” con i cavalli, ne rifà i versi, si mette a “sbruffare” (a sforà) con i cavalli, col tipico scuotimento della testa, fischia loro a mo’ di nitrito e lo fa lavorando, accudendoli. Ma, vecchio cacciatore, possiede pure un antico “cocchio” di rame per il richiamo degli uccelli: in dialetto trebano questi richiami sono ancora chiamati “Jo Cocchio” oppure “Jo Chiocchio”. E, ancora, Quinto Petrivelli, detto Manucà, che parla con gli uccelli, grugnisce e grufola in maniera assolutamente “porcina”, bela alle pecore; Italo Magliacca che ha rapporti del tutto “fraterni” coi suoi cavalli.
Il materiale, credo tutto importantissimo, è strabordante. Forse bisognerà fare un doppio CD da allegare al libro, anche se io avrei proprio preferito farne uno: ma come si fa a eliminare certi brani e certe forme d’espressione?
Il lavoro “rischia” di diventare alquanto importante.