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(foto di Ferdinando Scianna, da un suo volume in uscita per Squilibri, In viaggio con Roberto Leydi) 

R. Leydi, L’Italia popolare in nastri

E' il momento di studiare le nostre tradizioni dal vivo del materiale registrato (La Fiera Letteraria 2 (11 gennaio 1968), p. 25).

Nel 1934 una spedizione scientifica (finanziata anche dalla fondazione ROckfeller) si spinse in Uganda con un apparecchio di registrazione su cilindri di cera della Discoteca di Stato per effettuare un raccolta di musiche indigene. Al suo ritorno in patria si constatò che le incisioni erano assolutamente inutilizzabili per la loro pessima riuscita. Così si concluse il primo tentativo italiano di utilizzare gli strumenti di reggistrazione meccanica del suono per la raccolta di musiche di tradizione orale. Nulla fu più tentato per quattordici anni.

Questo brillante risultato dimostra quale fosse il livello di preparazione dell’etnomusicologia italiana in quel tempo, anche nel semplice ambito tecnico. E va detto che nel 1934 il patrimonio di registrazioni etnomusicologiche era già stimato, negli Stati Uniti, a 17.000 documenti e in Europa gli archivi dei due istituti di Berlino e di Vienna contavano molte migliaia si incisioni, in gran parte realizzate da Bela Bartok e Zoltan Kodaly (tra il 1903 e il 1939), conservate presso l’Accademia delle Scienze di Budapest. In Italia, intanto, si continuava a far voti perché almeno il nostro patrimonio tradizionale incominciasse a venir investigato e fissato con mezzi tecnici adeguati e moderni.

Questi dati sono necessari per capire l’importanza di quanto è stato compiuto dal 1948 ad oggi. Partendo dal nulla, in una situazione difficile, sia culturale che economica e politica, i ricercatori italiani sono riusciti, in vent’anni, a realizzare un lavoro di grande consistenza sia per quantità che per qualità. L"opera più continuativa e intensa è stata compiuta dal Centro Nazionale Studi di Musica Popolare di Roma (ente patrocinato congiuntamente dall’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e dalla RAI-Radiotelevisione Italiana) che proprio in questi giorni compie i vent’anni.

Sotto la direzione di Giorgio Nataletti e con la collaborazione di Diego Carpitella, il CNSMP ha ammassto nei sui archivi oltre 12.000 documenti registrati (per lo più con ottimi strumenti tecnici forniti dalla RAI) in tuttte le regioni italiane. Se a questo “fondo”, che costituisce comunque la base, s’aggiungono alcune raccolte pubblicate (per esempio quelle della Discoteca di Stato che, da qualche anno, sta cercando di riguadagnare il tempo perduto) e private, si arriva forse a 20.000 registrazioni. Il valore di questo patrimonio non è soltanto numerico, ma soprattutto qualitativo, in grado di reggere più che adeguatamente il confronto con le maggiori collezioni straniere (almeno dell’Europa occidentale) che sono (alcune) più ricche e “storicamente” importanti, ma non altrettanto “moderne” per concezione di ricerca e livello tecnico.

Il problema che oggi si pone si fronte a questa massa di documenti sonori è quello della loro utilizzazione scientifica e della loro circolazione culturale. Lo stadio, inevitabilmente, del raccogliere “subito” il “più possibile”, prima che nuovi sviluppi socio-economici e culturali disperdessero definitivamente il supstite patrimonio tradizionale (legato al mondo contadino, pastorale, arcaico e paleo-industriale) è oggi superato. E’ venuto cioè il momento di procedere alla ricognizione e allo studio di questo materiale e alla sua divulgazione, nel vivo del dibattito culturale e delle rinnovate attenzioni scientifiche. L’enorme divario tra quantità di materiale raccolto ed elaborazione dei dati va colmato, a rischio di annullare un lavoro intenso, disinteressato ed appassionato di vent’anni.

Quindi c’è da domandarsi se la situazione è maturata per un’operazione ad ampio raggio, destinata a realizzarsi in un ambito culturale profondamente rinnovato, cioè non in termini archeologici e sempllcemente filologici, ma in un piu largo contesto, nel vivo di un dibattito non soltanto specialistico. Apparentemente la situazione appare favorevole. L’interesse per il mondo popolare è oggi abbastanza vivo anche in Italia (un Paese che non può certo contare su una tradizione di studi etnologici e antropologici) e le questioni relative alla comunicazione tradizionale hanno acquistato una certa presenza nella discussione culturale e persino (con le inevitabili strumentalizzazioni e distorsioni) anche nell’opinione pubblica.

Ciò che manca è la struttura scientifica capace di assumersi un simile compito, con tutte le sue implicazioni culturali e socio-economiche, oltre che specialistiche. Mancano i quadri, oltre l’esigua pattuglia di pionieri. Manca anche, forse, la volontà unanime di una scelta di politica culturale capace di incidere nella realtà, in confronto con la crisi dei valori comunicativi ed espressivi della cultura cosiddetta “superiore”, in una prospettiva che trascende l’interesse specifico e settoriale. Da alcuni segni parrebbe che una modificazione in senso positivo sia in atto. I prossimi anni ci diranno se la fiducia che ha guidato I pionieri nel loro lavoro di raccolta dei documenti è giustificata, se davvero la loro consapevole e inconsapevole convinzione di lavorare per una modificazione delle funzioni culturali e quindi delle strutture comunicative, sullo sfondo di un mondo in rapida e convulsa trasformazione, ha fondamento.