Quindici anni dopo. Un dialogo tra gli autori
Nicola Scaldaferri
Questo libro si inscrive in un percorso di ricerche sulla Basilicata aperto dalla stagione delle indagini demartiniane che, proprio in occasione del loro cinquantesimo anniversario, nei primi anni 2000, diedero l’impulso per intraprendere nuove ricerche sulla regione. Dal punto di vista fotografico è collegato ad esperienze come quelle di Arturo Zavattini, Franco Pinna, Henri Cartier-Bresson, per giungere fino a quella recente di Lorenzo Ferrarini. Quale consapevolezza avevi, nei primi anni 2000, di un percorso fotografico che va configurandosi sempre più di cruciale importanza nel contesto italiano?
Stefano Vaja
Quando ho cominciato a fotografare in Basilicata nessuna. È stato lavorandoci, entrando dentro le storie, che è nata l’esigenza di approfondire. Poi per scrivere il breve saggio presente nel libro è stato necessario un lungo lavoro di studio che ha cambiato di molto la mia prospettiva, in cui ho cercato anche di guardare a questo campo di indagine con un taglio diverso, allargando lo sguardo a esperienze non strettamente etnografiche, per riconnettere quelle storiche “discese” fotografiche alla consapevolezza e ai pregiudizi di quegli anni.
A questo proposito c’è una foto che rimpiango ancora oggi di non aver fatto, e il rimpianto nasce dalla tardiva acquisizione di una consapevolezza rispetto a questo ambito fotografico. È un’immagine del tutto banale a San Fele, un campo pieno di macchine parcheggiate, erano quelle dei partecipanti alla processione della Madonna di Pierno. Dove sta l’interesse? Nel fatto che ci sono alcune iconiche immagini di Franco Pinna, delle persone che negli anni ’50 arrivano a quello stesso santuario, ma dorso di mulo. Quindi quella che oggi è un’immagine per noi assolutamente banale, vista in una prospettiva storica, avrebbe potuto rappresentare la potente sintesi di un epocale cambiamento nello stile di vita delle persone.
NS
Le foto che hai scattato in quel periodo sono analogiche. Nel giro di pochi anni la tecnica fotografica ha conosciuto cambiamenti profondi; l’esplosione del digitale ha in parte cambiato il modo di concepire la fotografia e – come immagino – anche il tuo lavoro. Quanto la specifica situazione tecnologica ha influenzato il modo di operare in quegli anni, anche a livello di scelte che hai dovuto compiere? Come affronteresti oggi un lavoro del genere?
SV
Le cose sono cambiate molto ma allo stesso tempo poco. Nel senso che una fotografia alla fine resta una fotografia, anche se ottenuta con una tecnologia differente. L’esito finale è sempre un’immagine bidimensionale scritta con la luce. Da quando ho cominciato a fotografare in digitale non ho mai più usato la pellicola, e non ho nostalgie al riguardo. Dal mio punto di vista il cambiamento più significativo riguarda l’eliminazione della fase di acquisizione delle immagini analogiche da pubblicare velocemente sui giornali, ma questo non è un problema nell’ambito della fotografia etnografica.
Quello che è totalmente cambiato, in conseguenza proprio dell’accessibilità della tecnologia digitale, è la fruizione di quei riti da parte dei partecipanti. Da qualche anno chiunque ha un telefonino può fare in prima persona foto di buona qualità o brevi video. Questo comporta un effetto distorsivo: mi concentro sulla produzione di immagini col pensiero di condividerle sui social. E questo ha impatto anche sull’atmosfera della festa, quando tanti escono dalla condizione di partecipanti per testimoniare il loro esserci stati.
Se dovessi fare adesso un lavoro di questo tipo, ci sarebbero alcune possibilità in più rispetto all’analogico, come una maggior sensibilità alle basse luci. Ma il cambiamento maggiore per me sarebbe - proprio in virtù del salto consentito dalla tecnologia digitale - che oggi potrei usare le macchine fotografiche per fare anche dei video, lavorando sul movimento rituale, sulla gestualità nell’esecuzione musicale, sulle sonorità, sul montaggio come momento interpretativo, cioè sugli aspetti su cui, come fotografo, in quegli anni mi sono sentito “orfano”.
NS
Nelle tue foto ritroviamo eventi riconducibili a due grandi tipologie: in primo luogo momenti pubblici e collettivi, come feste calendariali e religiose (i riti del carnevale, i pellegrinaggi, i culti mariani), in cui musicisti e performers sono parte integrante di un cerimoniale spesso assai complesso; in secondo luogo momenti privati, come la lavorazione di strumenti musicali o specifiche performance musicali talvolta appositamente per il CD allegato, e infine, in alcuni casi, veri e propri ritratti fotografici. Vi sono differenze nel modo in cui hai affrontato queste situazioni?
SV
Certamente. La situazione rituale è qualcosa di vicino sia al teatro, dal punto di vista della messa in scena di una rappresentazione, sia alla nozione di reportage, quindi un avvenimento che occorre raccontare, entrandoci dentro, cercando una propria sintonia con la situazione – e questi sono due ambiti che conoscevo bene perché erano quelli in cui lavoravo come fotografo. Nel teatro si tratta di aspettare che accada qualcosa di rilevante, che “parla” attraverso le immagini, di cogliere in una sintesi visiva l’essenza di una performance attoriale e gestuale. Nel reportage si tratta invece di partecipare a quello che sta accadendo, di avere un atteggiamento più proattivo, di andare a cercare le situazioni, i punti di vista, la luce migliore, dovendo sempre negoziare con te stesso la scelta su dove andare, cosa inseguire e cosa necessariamente ritieni di poter trascurare.
Al contrario, le occasioni “domestiche” relative a musicisti e costruttori di strumenti avevano più a che fare appunto col ritratto, magari ambientato, e quindi a volte anche con la messa in posa. Sono situazioni che normalmente richiedono di fare conoscenza, di stabilire un rapporto con le persone, che si devono fidare e sentirsi libere di essere se stesse. In questo caso è stata fondamentale la tua presenza come studioso e musicista molto conosciuto in regione, nella funzione di mediatore, per aver velocemente accesso ad una dimensione privata. Si tratta quindi di situazioni tra loro molto differenti.
NS
Dopo il lavoro intensivo in Basilicata, realizzato nei primi anni 2000, sei ritornato successivamente nella regione più volte, anche a distanza di tempo, in occasioni di visite private con la tua famiglia o per un ritorno sul terreno di ricerca, come accaduto nel caso del Maggio di Accettura.
Ritornare dopo un po’di tempo consente di cogliere le dinamiche e le trasformazioni di una data realtà meglio che con una frequentazione continuativa. Che impressione hai delle dinamiche in corso negli ultimi anni nel terreno lucano, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti visuali?
SV
È vero che da fuori può essere più facile leggere i cambiamenti, ma allo stesso tempo ho una percezione parziale e non sistematica delle trasformazioni in atto.
Da una parte, come già detto, si sta modificando la modalità di partecipazione delle persone, che non sono più soltanto dentro l’evento, ma ne escono continuamente, ogni volta che producono foto e video.
Dall’altra ci possono essere dei cambiamenti sostanziali nell’organizzazione degli eventi. Penso ad esempio quando dopo qualche anno sono tornato a San Mauro Forte e alla comparsa di un palco, su cui gli scampanatori potevano salire, per farsi meglio vedere dalle persone in piazza. Dal punto di vista della documentazione è importante cogliere anche queste trasformazioni e comunque ogni festa non è mai incontaminata, perché subisce inevitabilmente continue modificazioni nel corso del tempo. Ma in questo caso, ad esempio, questa scelta interrompeva la processione nelle strade per passare alla rappresentazione di una processione, in piazza. Così come mi ha fatto una certa impressione, in uno dei tuoi video, vedere che la sfilata dei Turchi, alla festa di San Gerardo a Potenza, festa che non conoscevo, si conclude allo stadio. È piuttosto straniante.
NS
I mesi che stiamo attraversando, segnati dal COVID, rappresentano un periodo che avrà ripercussioni probabilmente epocali, di cui facciamo ancora fatica a capire la reale portata. Pensi che le tue foto, soprattutto quelle relative a grandi eventi collettivi – oggi marcati dalla connotazione negativa di assembramenti – diventeranno testimonianze di un mondo che potrebbe conoscere sostanziali trasformazioni?
SV
Sarebbe molto triste se le foto di questi anni, mie e di altri, dovessero diventare testimonianza di qualcosa che cambierà a causa del COVID.
L’interruzione è sicuramente traumatica, anche perché rischia di essere di almeno di due anni, considerando anche questo in corso. Poi nonsappiamo cosa succederà. Confidando che i vaccini possano essere risolutivi, ci resterà comunque a livello generale una difficoltà a riavvicinarci? A vivere in modo libero situazioni di assembramento? Può essere. Tutto queste occasioni legate alle feste sono situazioni molto “calde”, dove la prossimità, i baci e gli abbracci, la condivisione del cibo, del vino, del sudore e, per i fortunati, anche delle ance degli strumenti, o della saliva mentre si canta, è fondamentale. Vivere queste feste con la mascherina e misurando la distanza dagli altri è possibile, ma ne stravolgerebbe il senso. E poi le figure di riferimento, i custodi della tradizione sono proprio gli anziani, cioè la categoria più a rischio. Se riusciremo a tornare alla normalità non credo però che questa interruzione lascerà tracce. Pensa alla seconda guerra mondiale. Come si fa a tornare alla normalità, dopo una tale tragedia? Come si fa ad andare avanti? Come è possibile dimenticare? Eppure ci si riesce.
Un altro rischio potrebbe essere che si possa interrompere la tradizione del ritorno nei paesi delle persone emigrate, in occasione delle feste più importanti per le varie comunità. Questo sarebbe un grave danno, soprattutto nel caso dei culti arborei, dove è necessaria la presenza di persone che abbiano competenze specialistiche per poter consentire lo svolgimento della festa.
Io sono del Nord e per me tutto questo, al tempo della nostra ricerca, era una novità; invece tu, Nicola, frequenti sin da quando eri ragazzo alcune delle feste della Basilicata, all’inizio come partecipante e musicista, da tempo come osservatore e musicista. Come sono cambiate nell’arco di questi trenta, quarant’anni le feste e la loro funzione? Sono diventati, o c’è il rischio che lo diventino, anche momento di attrazione turistica, finendo così per essere snaturate?
NS
Le feste sono momenti di aggregazione, riuniscono gli abitanti del luogo e attirano gente da fuori; più importante è l’evento e più vi è forza attrattiva, e il dinamismo da cui sono pervase è una costante che induce a dei cambiamenti.
Certamente è esplosa negli ultimi anni la tendenza a considerare le feste tradizionali come risorse del territorio e possibili attrazioni turistiche – una tendenza suggerita, quando non esplicitamente promossa, a livello istituzionale e politico, anche con appositi sostegni finanziari. Questo anche come parte sostanziale del discorso sulla patrimonializzazione dei beni immateriali (non privo di ambiguità e aspetti discutibili), collegato alla convenzione Unesco sui beni immateriali del 2003.
La Regione Basilicata nel 2014 ha istituito un registro del Patrimonio culturale intangibile, dove vi figurano molti eventi di cui ci siamo intensamente occupati nei primi anni 2000 per questa ricerca. Di feste ed eventi dotati di forti specificità locali, fotografate e registrate, viene così suggerita una “messa a sistema” cui si vuol attribuire anche una sorta di coerenza d’insieme. Questo ha stimolato la creazione di reti (dei carnevali, dei culti arborei) con intenti promozionali, che di fatto appiattiscono, a livello di proposta, eventi estremamente complessi (come quello di Rotonda) con feste di impegno partecipativo decisamente assai minore. Oppure, ha spinto alla creazione ex novo di eventi potenzialmente attrattivi, di cui non vi era traccia negli anni della nostra ricerca. Qualche esempio: la foresta di alberi che camminano del Carnevale di Satriano di Lucania – che trae spunto dall’esperienza artistica del film maker Michelangelo Frammartino –; oppure un evento come il Sogno di una notte a quel paese di Colobraro, che patrimonializza la nomea del paese come luogo portasfortuna per farne una sorta di brand promozionale
Tutto questo rischia di trasformare eventi partecipativi di rilevanza identitaria locale (spesso mossi da intense ragioni devozionali, come nel caso delle feste religiose) in eventi di consumo, a beneficio di turisti alla ricerca di avventure dall’aura “antropologica”, rischiando di confondere il ruolo dei partecipanti locali con quello di figuranti. Tra gli sforzi rituali compiuti da cimaioli e maggiaioli ad Accettura e la recita di maciare e monachicchi delle serate estive per i vicoli di Colobraro vi è una differenza abissale; eppure sono casi che rientrano nello stesso Registro regionale dei beni intangibili – dove figurano peraltro anche sagre di prodotti tipici ed animazioni agostane – e che sono “tutelati” alla stessa maniera con erogazione di risorse regionali. Roberto Leydi era solito dire che le tradizioni non si salvano con i decreti ministeriali. È vero però l’inverso: decisioni di indirizzo istituzionale possono alterare, se non danneggiare, i delicati equilibri di certe feste che si reggono su forme spontanee di partecipazione di massa.
Tra i cambiamenti significativi intercorsi tra la prima e la seconda edizione di questo libro, va anche menzionata l’esplosione dei media, diventata una parte costante di ogni evento pubblico e festivo. Come sottolineavi anche tu prima, è assai facile oggi fare buone foto con un telefonino; fotografi e video operatori intenti a scattare foto e selfies – come parte di una autonarrazione da diffondere sui social media e non più come simbolo dell’auctoritas del ricercatore acquisita con il suo essere stato lì – sono diventati parte integrante del paesaggio festivo.
Questa trasformazione si può cogliere, tra i materiali video, nell’episodio dei Ritorni sul campo, osservando le riprese relative all‘ingresso in chiesa della Rocca (l’abete) per l’omaggio a S. Antonio, effettuate nel 2002 e nel 2019. Nelle prime l’ingresso è riservato ai soli partecipanti, in una sorta di rito intimo dal quale sono rigorosamente esclusi i (pochi) fotografi, bloccati all’ingresso della chiesa. In quelle del 2019 la Rocca viene invece introdotta in una chiesa piena all’inverosimile di gente in attesa, con fotografi (che ormai sono diventati una massa critica di queste feste) collocati pure sopra l’altare. Un altro esempio di questo mutamento si può cogliere nelle male parole rivolte nel 2003 a Castelsaraceno ai fotografi che assistevano all’alzata della Ndenna, nell’episodio Scenari paralleli – parole che risultano del tutto risibili oggi, in situazioni dove la partecipazione sembra essere importante soprattutto nella misura in cui la si può condividere sui social media.
Una riflessione apposita sulle trasformazioni tuttavia secondo me andrà fatta tra qualche anno, una volta valutate anche le conseguenze del periodo che stiamo vivendo: le alterazioni suscitate dal COVID, cui si faceva menzione prima, potrebbero infatti intaccare certe pratiche in maniera più significativa di quel che possiamo pensare, e ora siamo ancora lontani dal capirne il reale impatto. Con rare eccezioni, le Pro loco e gli organizzatori locali hanno continuato negli ultimi due anni a far promozione di eventi come se tutto ciò fosse solo una parentesi. Invece, se la riproposta per due anni di uno stesso evento è la premessa per la nascita di una tradizione, la sua interruzione per due anni consecutivi potrebbe costituire la premessa per la creazione di consuetudini meno vincolanti. Forse nei prossimi anni, l’obbligo sancito dalla tradizione di celebrare un evento - whatever it takes - potrebbe non essere più percepito in modo così tassativo.
SV
Buona parte dei musicisti, dei cantori e dei costruttori di strumenti presi in considerazione nella ricerca erano anziani, dunque a distanza di quasi vent’anni adesso non ci sono più o sono ormai troppo vecchi per poter partecipare ancora. C’è quindi un ricambio generazionale in atto.
Come cambia l’esecuzione musicale dai vecchi ai giovani? Penso ad esempio a certe voci insolite, ruvide, o anche soltanto affaticate, comunque cariche di storia personale e di fascino particolare. E come la nuova generazione sta acquisendo e insieme modificando il patrimonio musicale?
NS
C’è senza dubbio un ricambio generazionale in atto, rispetto ai primi anni 2000. Molti dei monumenti viventi della tradizione lucana che compaiono nelle tue foto (penso soprattutto a figure come Vincenzo Forastiero e Paolina Luisi) sono venuti a mancare, e la scena attuale si presenta popolata di giovani che si inseriscono nei processi con adattamenti che riflettono i loro gusti e le loro esigenze. Ad esempio, l’intenso uso dei social media per la condivisione di certi repertori sono ormai parte integrante degli attuali processi di apprendimento delle musiche tradizionali. Tuttavia questo contribuisce anche a mettere in circolazioni fonti sonore autentiche e a diffondere così modelli performativi di cui anche le nuove generazioni colgono perfettamente l’importanza e l’autenticità, anche laddove compiono le loro esperienze di riproposizione.
Personalmente continuo a riscontrare, anche nelle performance della nuova generazione, il rispetto di certe caratteristiche musicali (sia vocali che strumentali) capaci di garantire continuità e riconoscibilità a distanza di tempo. Talvolta riservano anche delle sorprese, come il recupero di elementi che si davano in declino, recuperati invece proprio al fine di marcare certi tratti identitari. Esemplare è il caso delle zampogne. Ci sono oggi molti più suonatori giovani rispetto agli anni in cui io ero ragazzo, quando la mia presenza – pressoché unica – veniva considerata un po’ eccentrica. Accanto ad ance di plastica, introdotte nel corso degli anni ‘90, vi è un ritorno all’utilizzo di quelle originali, di canna, proprio per voler recuperare certe specificità locali e per non cedere a una “omologazione sonora”. Ci sono costruttori giovani, come il ventenne Vincenzo di Sanzo, di S. Paolo Albanese, che studia pianoforte al Conservatorio di Roma e si è ora accostato anche alla liuteria. Certamente sfugge ai canoni del costruttore tradizionale, di cui il massimo esponente era Antonio Forastiero, che viveva isolato sul Sirino (andare a trovarlo costituiva una sorta di pellegrinaggio). Gli strumenti di Di Sanzo (che predilige le ance di canna) però sono di fattura eccellente, e si inseriscono con continuità nella mastrìa tradizionale, rappresentando una quarta generazione che fa seguito a quelle di Carmine Trimarco, Antonio Forastiero e Quirino Valvano.
Ma questo non riguarda solo la realtà lucana; basta citare il caso del festival Felici e Conflenti, in Calabria, inaugurato nel 2014, con la presenza di musicisti, musiche e strumenti “rigorosamente” tradizionali e senza amplificazione (coniugati però con dirette radiofoniche e streaming sui social media), che si sta imponendo come una delle proposte di maggior vitalità del panorama italiano. Proprio a Conflenti hanno “debuttato” nel luglio 2019, un gruppo di giovani ragazze di S. Costantino nell’esecuzione dei tradizionali vjesh, secondo il tipico stile “urlato”, lontano dai canoni estetici correnti. Benché questi canti non siano più eseguiti nel loro contesto originario – le ragazze li hanno imparati forse soprattutto per divertimento – questo ha operazione ha assicurato la trasmissione di repertori vocali assai difficili ad una nuova generazione di voci femminili. Non è il timbro ruvido delle voci delle loro nonne che siamo abituati ad ascoltare nelle registrazioni, ma è assai simile al timbro squillante delle loro nonne e bisnonne quando erano teenagers, al tempo in cui questi canti – che ora sono “solo” un patrimonio culturale – venivano regolarmente eseguiti durante le pause dalle intense fatiche nei campi.
SV
Nel libro c’è una triplice restituzione degli eventi rituali e delle occasioni musicali, attraverso i saggi, le registrazioni audio e le immagini fotografiche. Ora, in questa seconda edizione, hai aggiunto anche frammenti video di quelle stesse situazioni. Si tratta di video “di servizio”, in parte taccuino per appunti e non pensati per un uso pubblico. Fungono da integrazione, e costituiscono una specie di anello di congiunzione fra le altre tre forme di documentazione e di restituzione.
Quale pensi possa essere il momento giusto per la fruizione dei video? Andrebbero visti subito, come una sorta di introduzione al libro, oppure dopo la lettura, come una sorta di completamento rispetto ai “buchi” di informazione che lascia il libro?
NS
L’aggiunta dei materiali video, che abbiamo immaginato insieme – e di concerto con l’editore, con l’intento di arricchire questa nuova edizione – in effetti introduce una sorta di quarta dimensione narrativa. Lo scopo primario è stato ovviamente quello di arricchire le informazioni sulla ricerca, illustrando e contestualizzando, anche mostrando momenti di backstage, il metodo di lavoro e i suoi retroscena. Non si è persa nemmeno l’occasione per introdurre dei materiali di confronto, come le riprese realizzate a distanza di anni “ritornando” sugli stessi eventi, che aprono nel contempo uno squarcio sull’attualità fornendo anche degli aggiornamenti.
Nei video compaiono numerose situazioni, in gran parte provenienti dai miei appunti visivi – fissati in parallelo con le registrazioni audio – ma talvolta anche da filmati realizzati da amici e collaboratori. I materiali sono stati montati, con la collaborazione di Lorenzo Pisanello, in quattro capitoli, pensati in stretta relazione con la struttura e la narrazione del libro, inteso nella sua triplice entità fotografico-sonoro-testuale.
Il primo dei quattro capitoli (Nel paese dei cupa cupa) è concepito come integrazione e arricchimento del discorso fotografico e sonoro, quasi a voler riunire e riproporre, in movimento, situazioni che nel libro sono “fissate” e “scisse” nelle foto e nelle registrazioni. Il secondo capitolo (Storie dietro le quinte) ripropone situazioni di contesto, che possono far capire meglio il metodo di lavoro adottato e le interazioni che si sono create con i musicisti locali. Il terzo (Scenari paralleli) è dedicato a situazioni rimaste escluse dal racconto sonoro e fotografico principalmente per ragioni di coerenza narrativa. Il quarto (Ritorni sul campo) propone invece delle rivisitazioni a distanza di 15-20 anni, che consentono di cogliere alcune delle dinamiche in atto.
Personalmente non penso che vi sia un momento preciso da privilegiare per la fruizione dei video in rapporto al resto. Tutta l’operazione, fin da quando l’abbiamo concepita anni fa, costituisce un racconto dialogico integrato tra diversi linguaggi. La narrazione è affidata più ai capitoli fotografici e al racconto musicale del CD che non alle parti scritte, e credo che questo possa offrire l’occasione per sperimentare diverse modalità di fruizione. Certamente si può iniziare dalla lettura, per poi passare alle foto, all’audio e al video, ma anche sperimentare percorsi alternativi: come iniziare dai video, o alternarli liberamente al resto. Penso che questa seconda edizione costituisca uno dato significativo soprattutto per le prospettive di apertura narrativa che suggerisce al fruitore, proprio grazie all’aggiunta di questi nuovi materiali.
SV
Nella tua duplice veste di protagonista e studioso, cioè avendo la possibilità e l’onere di stare allo stesso tempo dentro e fuori dalle feste e dalle occasioni musicali, dopo l’aggiunta dei video credi che manchi ancora qualcosa? Cosa si potrebbe ancora fare per descrivere più intensamente, più esaurientemente queste situazioni rituali?
NS
I ruoli di confine – per loro natura piuttosto scivolosi – certamente stimolano, nel caso specifico, una riflessione sulla complessità dell’esperienza di ricerca vissuta in prima persona sul terreno e le modalità più pertinenti di una sua possibile restituzione.
Se pensiamo a un prodotto multimediale come a una restituzione della ricerca che faccia provare al fruitore, almeno parzialmente, la percezione di “esserci”, il racconto, pur nella complessità dei vari linguaggi e canali sensoriali, non può che essere riduttivo rispetto all’esperienza vissuta. Nonostante tutta la sperimentazione suggerita dalla Sensory Anthropology, anche nelle proposte più immersive e multisensoriali, dalle connessioni sinestetiche per arrivare alla gastrofonia, siamo lontani dal proporre soluzioni soddisfacenti. Ma alla fine credo che questo sia poco rilevante; compito dei ricercatori non è quello di consentire, con le loro restituzioni, forme surrogate di fruizione che possano essere sostitutive della partecipazione diretta all’evento, quanto di intraprendere percorsi analitici e interpretativi capaci di stimolare nuove riflessioni.
Probabilmente quando ci saranno soddisfacenti sistemi di media(tizza)zione dell’esperienza olfattiva o gustativa, si svilupperanno nuove forme di racconti e di analisi, anche sul piano di una possibile narrativa multisensoriale. Al momento, mi limiterei forse a sottoscrivere la proposta del fotografo Antonio Trivigno, laddove suggeriva di abbinare alla presentazione della ricerca multimediale sul Maggio di Accettura un bel piatto di maccheroni.
SV
E anche qualche bicchiere di Aglianico!