Leggi l'introduzione di Franco Vitelli
Scotellaro ritorna. In verità, la sua fortuna non si è mai interrotta, anche quando la parola d’ordine che partiva dalle centrali del Potere voleva mettere a tacere una voce e un’esperienza di libertà. Si è registrata una singolare divaricazione tra le pretese di stabilire dall’alto il movimento della storia con annessi indirizzi nel campo letterario e la richiesta spontanea del popolo dei lettori attestato in sintonia con il ragazzo di Tricarico. Un’affinità elettiva che ha visto in prima fila soprattutto i giovani sensibili per virtù di uno slancio che anela all’azione e al riscontro di comportamenti coerenti.
Mi piacerebbe ricostruire gli anni della resistenza alla macchia, quando, a dispetto di discutibili politiche editoriali, poesie e racconti passavano da una mano all’altra in ciclostile; e non era faccenda che albergava solo nei covi della sinistra intellettuale. Né il fenomeno si restringeva all’area meridionale, ché nella sua pervasività toccava il Nord e il Sud, l’Italia e i paesi stranieri. Di sicuro c’è però da riconoscere che un formidabile canale di diffusione era/è rappresentato dalla folta schiera dei meridionali migranti che ritrovano in Scotellaro lo spazio-tempo della loro identità messa a dura prova dalle continue traversie. Quanto più incombe la dispersione, tanto più suona di conforto e torna d’aiuto la parola del sindaco-poeta. Proveniva da una civiltà arcaica ormai aperta alla storia e la sua morte prematura è apparsa come la metafora di un processo spezzato, le cui conseguenze s’avvertono ancora. E chissà se la persistenza del “primitivo” che è in noi non agisca da calmante alla cinica arroganza della ragione calcolatrice e sprezzante dell’umano. Nessuna nostalgia passatista, solo un invito alla coscienza del limite che deve governare la società del postmoderno, pena lo scivolamento verso un’apocalisse senza escaton.
Scotellaro ritorna, dunque. E questa volta con le sembianze di un audiolibro, in cui molta parte ha la musica. Ricordo come fosse ieri, ma è passato qualche decennio, quando Linuccia Saba alla mia tesi di una perfetta musicabilità di Scotellaro rispose con la consueta generosità, donandomi lo spartito di Mauro Bortolotti intitolato “Tre poesie di Rocco Scotellaro per Voce, Clarinetto, Pianoforte”. Il lavoro risaliva al 1957 e portava la dedica a Carlo Levi; la scelta del Maestro era caduta su Desiderio, O Fons Bandusiae e Due eroi.
Credo che questo materiale sia stato pubblicato e in ogni caso non toccherebbe a me entrare nel merito; vorrei piuttosto riprendere il discorso sul rapporto tra Scotellaro e la musica. Può configurarsi nella duplice accezione della tecnica interna alla versificazione e del rispecchiamento di una civiltà. L’andamento ritmico del verso riflette quasi una musicalità congenita che discende dalla sua originaria matrice popolare e da una risentita forza di oralità; ciò non vuol dire il misconoscimento dell’elemento colto, semplicemente l’indicazione di una priorità che s’intreccia in fase elaborativa con i modi e le forme della tradizione letteraria. È l’originale impasto poetico che caratterizza la cifra scotellariana e ne determina la significatività storica. La poesia diviene il respiro antropologico di una civiltà e perciò consustanziale alla vita del mondo contadino.
Scotellaro prospetta una lontana origine mitica, una specie di predisposizione al canto -insieme poesia e musica-, che sarebbe costitutiva della tradizione lucana; e ciò si trasforma addirittura in centro d’attrazione per il viaggiatore: “Venite a scoprire i sacri altari/ ove è sommersa l’anima d’un arabo/ del greco che si mise/ la prima volta a cantare”. Questa duplice componente appare visibile nella “canzone araba” che diventa patrimonio degli zingari e, soprattutto, nella celebrazione dei “padri” che “vennero a stare ai lidi, sui monti/ e si misero a cantare”; e dal mare Jonio “a Olimpia chiamavano il loro Dio”. Qui si fonda un archetipo, che in Omero ha il cantore nomade nella miseria, progenitore ideale per chi si faccia poeta del riscatto dalle servitù. La canzone accompagna la lotta contadina, rappresentando il momento liberatorio e gioioso, di aggregazione vitale; tant’è che la triste epopea dell’esodo non può che avvenire in un silenzio assorto, pensoso dell’avvenire incerto: “Il paese mio si va spopolando, imbarcano senza canzoni/ con i nuovi corredi di camicie e mutande i miei paesani”.
“La musica è la cinica risata/ della civetta spia d’ogni casa”: siamo in una dimensione più propriamente antropologica, che comporta la valorizzazione di strumenti e canti tradizionali. È senz’altro l’aspetto più perspicuo e caratterizzante:“antiche zampogne”, raganelle, “assonnate tiritere con zampogna e tamburino”, clarini e suoni di bande alle feste del paese, fisarmoniche. Si unisce un visibile tormento del paesaggio funestato dal suono delle campane che, anziché trasmettere messaggi di pace, rendono gli uomini “più lupi di prima”; ma non manca l’accenno di un idillio turbato in cui vibrano “lo zirlio dei grilli” e “il suono del campano”.
Fa un certo effetto notare che in questo specifico campo Scotellaro esibisce una certa resistenza alla modernità; il jazz ha tramato dapprincipio la vicenda d’amore, ma poi quelle note “han segnato un destino di noia […] con musica ossessa”; e, ugualmente, “la canzone del disco non li tocca/ che li reclama ai posti del caffè”: i muratori nella siesta sono diffidenti, non si riconoscono nei valori di un mondo a loro sconosciuto; o, su un piano più intellettuale e morale, per i giovani facilmente bohémien ed esistenzialisti “una canzone è per covare insano amore/ contro le ragazze cioccolato”. Si potrebbe dire che queste posizioni sono l’altra faccia di un atteggiamento di conservazione e difesa che paventa i rischi del consumismo e perciò si scaglia contro le “lucide vetrine” dei negozi, la pubblicità, i templi della moda.
L’idea di proporre un’antologia di poesie “dette”, in complementare accordo musicale, è stata felice anche nei criteri di scelta. Non tanto per la spettacolarizzazione dell’evento, che pure c’è ed è coinvolgente, quanto per l’indubbio risultato interpretativo. Recitare un testo significa interpretarlo, a volte in forma anche più produttiva del commento. Inutile nascondere che Scotellaro è autore a rischio di forzature, di retorica che porta dritto al tono gridato. Bisogna dare atto ai lettori di aver saputo cogliere la natura diversa dei testi, imprimendo a ciascuno il giusto significato.
Mi ha colpito in senso positivo la chiave di lettura dei versi famosi in esergo alla leviana edizione di È fatto giorno nonché di Sempre nuova è l’alba: in ambedue i casi è stata bandita la tentazione rivoluzionaria per privilegiare rispettivamente la gioia pensosa dell’entrata in gioco dei contadini meridionali e la dolce elegia della tregua che non vieta un’esatta comprensione storica.
Matilde Bonaccia e Francesco Tammacco, due bravi attori professionisti, conoscevano le insidie del mestiere e vi hanno per tempo trovato rimedio. Il più esposto, invece, era lui, il Governatore di Puglia Nichi Vendola, che naturaliter poteva sovrapporre la sua esperienza pigiando oltre misura sul tasto del politico; forse per contrappasso è venuta in soccorso la natura del poeta. In questo si è distinta la sua interpretazione: l’equilibrato candore dell’innocenza.