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Ho scoperto i Castelli Romani nel ’68, facendo il militare a Monte Cavo, sopra Rocca di Papa, la cima più alta dei Monti Albani. Avevo già una passione per la musica popolare ma era quella americana: dai primi dischi di riproposta commerciale del Kingston Trio a fine anni ’50 (“Tom Dooley”) ero passato per Peter Paul and Mary, poi Joan Baez e Bob Dylan, poi, avvicinandomi sempre di più alle fonti, per Woody Guthrie e Leadbelly e i dischi di registrazioni sul campo della Library of Congress. A quel punto pensavo che il prossimo passo avrebbe dovuto essere quello di andare io a fare ricerca sul campo in America, cosa per la quale allora mi mancavano i mezzi. Però riuscii a fare un viaggio a New York e Washington, raccogliendo le canzoni del Black Power e registrando le manifestazioni di protesta contro Nixon[1]. In vista di quella spedizione avevo preso contatto con Gianni Bosio e l’Istituto De Martino, che mi avevano procurato il mio primo registratore Uher – e il primo, fondamentale insegnamento di Gianni: non lo spegnere mai. Non mancare di rispetto alle persone con cui parli segnalando che quello che dicono non ti interessa; e non chiudere l’ascolto, non saprai mai se davvero non ti interessa, se quello che adesso ti sembra chiacchiere o rumore di fondo non si rivelerà qualcosa di importante.
Così, quando mi resi conto che altri progetti americani avrebbero dovuto aspettare, pensai che la cosa naturale da fare era guardarmi intorno e cercare lì dove mi trovavo. Stavo cominciando a fare politica, e cercare la musica popolare mi pareva un modo per capire qualcosa di più di quella misteriosa classe operaia e contadina di cui tanto parlavamo. Mi parve sensato ripartire dall’ultima realtà di paese dove ero stato di recente; ricordavo un’osteria non lontana dalla foresteria dove dormivo da militare, così decisi di cominciare da lì e a metà dicembre del ’69 feci la mia prima gita di ricerca ai Castelli. Quando entrai, armato del mio nuovo Uher, nell’osteria del Capellone a Rocca di Papa mi accolse un brivido di disorientamento: era meno di una settimana dalla strage di Piazza Fontana e per i frequentatori dell’osteria quella scatola nera somigliava pericolosamente a una bomba. Poi, l’accesi e, seguendo l’indicazione di Gianni Bosio, da quella sera non lo spensi più.
Trent’anni dopo, quando Enrico Grammaroli, Diego Lucifreddi e Santi Minasi cominciarono a riorganizzare l’Archivio “Franco Coggiola” del Circolo Gianni Bosio, quello fu il primo nastro che, senza sapere che cosa aspettarsi, cominciarono a riascoltare. Mi dissero poi che quello che li aveva impressionati non erano tanto i brani musicali (pure importanti, ce ne sono quattro in questa antologia) quanto l’ambiente sonoro: ascoltare quel nastro era come trovarsi di colpo dentro un’osteria dei Castelli alla vigilia degli anni ’70, un mondo nuovo per loro che a quel tempo non erano neanche nati. (…)
Questa infine è la diversità del progetto che da Gianni Bosio e dall’Istituto Ernesto De Martino arriva fino al Circolo Gianni Bosio di Roma, all’Archivio Franco Coggiola e a questo lavoro: l’idea di un ascolto “globale” in cui musica, racconti, storia, ma anche contesto, suoni di fondo, ambiente sonoro sono tutte componenti cruciali del momento. Per questo, in questa antologia sonora, la musica suonata e cantata si intreccia con i racconti parlati, e tutti stanno dentro un contesto in cui si coglie non solo quello che le persone in primo piano cantano o raccontano, ma anche quello che gli sta intorno e sullo sfondo: e se si sentono voci e rumori insieme con gli organetti e i canti, non sono disturbi e interferenze ma parte della realtà sociale in cui si parla e si canta e che vogliamo conoscere.
La seconda volta che tornai a Rocca di Papa, Toto Alciati mi presentò agli altri dicendo “Sandro è uno dei nostri”. Ora, di politica non avevamo parlato ma Toto aveva fatto caso al giornale, l’Unità, che era poggiato sul sedile posteriore della mia macchina. Capii fin da quella prima esperienza che la dicotomia fra osservato e osservatore è uno schema che non risponde alla realtà: io “osservavo” loro e documentavo il loro mondo, ma loro osservavano me e anche senza farmi domande si facevano un’idea di chi ero. La ricerca, insomma, era inevitabilmente dialogica, lo sguardo era reciproco: come scrissi poi, l’inter/vista è infine questo, uno scambio di sguardi.
Nel frattempo avevo incontrato un gruppo di compagni che stavano già occupandosi di canzone popolare e politica: Maurizio Gnerre, Stefano Lepre, Patrizia Politelli, Teresa Marchesi. Fu Teresa a darmi la dritta più importante: qualche tempo prima, nel corso di un intervento politico a Genzano con l’Unione dei Marxisti Leninisti, aveva conosciuto un certo Cicala, che faceva delle canzoni politiche che forse ci potevano interessare. La conoscenza con Silvano Spinetti detto “Cicala” è stato uno dei fatti più importanti della mia vita; la storia di quell’incontro e di tutto quello che ne seguì la racconto a parte[2]. Ma riguardando il sommario dei CD a cui questo libro si accompagna mi accorgo che contiene più di una dozzina di brani registrati in quell’indimenticabile giornata in cui prima ci trovammo in una cantina a registrare, fra le botti di vino, le canzoni di Cicala insieme con l’orchestrina di Fulvio Scipioni detto “Mastrobbio” (che, mi dissero, aveva imparato a suonare il violino al confino a Ventotene, dove l’avevano spedito per aver partecipato all’assalto di massa all’ufficio di collocamento di Genzano nel 1936) e dei suoi compagni; e poi, con Cicala alla fisarmonica, unici maschi la sera alla festa dell’8 marzo dell’Unione Donne Italiane, instancabili cantatrici di inni proletari, parodie e stornelli satirici, guidate dalla stentorea voce di Maria Martini (ma mi diverte il fatto che in questa antologia le donne dell’UDI di Genzano entrano cantando L’Internazionale ma ci salutano facendo da sfondo a Nannì, la canzone resa celebre da Ettore Petrolini sulle bellezze di una gita ai Castelli).
Nelle settimane seguenti Cicala mi fece incontrare e registrare un altro gruppo di compagni musicisti genzanesi. Convinto com’ero a quel tempo che mi interessassero solo le canzoni politiche e quelle di tradizione orale, registrai i loro brani strumentali pensando che non ne avrei mai fatto uso, fedele all’insegnamento di Bosio “intanto registra, poi si vedrà”: e infatti l’orchestrina genzanese di Pesoli e compagni figura in almeno quattro brani di questa antologia. Poi mi portò anche a Roma a conoscere suo padre Alfredo detto Dandolo, che non aveva più molta voce ma aveva uno sterminato repertorio di canti politici socialisti, comunisti, anarchici (del suo repertorio parla in questo libro il saggio di Omerita Ranalli). La sequenza dei Comandamenti del Socialismo di Dandolo Spinetti, la riscrittura di suo figlio Silvano (Mira la Rondondella), e l’esecuzione che ne fanno le donne dell’UDI sono un esempio del rapporto fra tradizione, innovazione, memoria condivisa e creatività individuale.
Cicala morì inaspettatamente e troppo presto e questa perdita, insieme con la scoperta di altri territori di ricerca[3], fece sì che per un po’ di tempo non tornassi più ai Castelli. Ma quando ci tornai fu per fare una cosa del tutto diversa. Infatti l’esperienza di ricerca/intervento che avevo cominciato a fare a Terni e in Valnerina mi aveva fatto scoprire l’altro asse di tutto il mio lavoro a venire: la storia orale. Anche questo avvenne grazie alla pratica di non spegnere mai il registratore, per cui insieme con le canzoni dei partigiani e degli operai ternani avevo registrato le loro storie, e mi ero accorto che i racconti erano almeno altrettanto interessanti delle canzoni, non solo per le conoscenze storiche ma anche, per me soprattutto, per la creatività narrativa, comprese le invenzioni e gli errori in cui stava gran parte del loro significato[4]. In altre parole: se una forma espressiva “artistica” come la musica era anche un documento storico, le narrazioni storiche orali erano anche una forma espressiva, un luogo di creatività e bellezza.
Tornai ai Castelli con questa consapevolezza, e grazie a Riccardo Duranti, mio collega all’università che abitava a Genzano e conosceva tutti i vecchi militanti dell’antifascismo e delle lotte contadine, conobbi un narratore straordinario come Leonardo Bocale, quadri politici di base come Bruno Attenni, Ignazio Bianchi, Palmieri ed altri. Forse fu Duranti – ma non ne sono sicuro – a farmi incontrare l’indimenticabile Tiberio Ducci, memoria storica vivente, con i suoi racconti sul ’98 a Genzano, che furono la base delle nostre prime riflessioni sulla storia orale.
Il 25 aprile 1975, l’ANPI radunò sul palco del teatro di Albano un gruppo di narratori, quasi tutti partigiani, che ricostruirono la storia dei Castelli dai tempi del papato alla resistenza: c’erano Ducci, Attenni, Bocale, Sinni, Iacoangeli. Prima di loro, sul palco erano saliti un gruppo di suonatori: Adriano, Franco e Pino Marsella, voci, tamburelli, organetto (vengono da quella performance gli stornelli che aprono il secondo CD). I Marsella sono le figure rappresentative di una terza fase delle mie gite ai Castelli e di uno spostamento anche di luogo, da Genzano a Velletri.
(…) Le mie “gite ai Castelli” si sono svolte soprattutto lungo la direttrice della via Appia: Ariccia, Albano, Genzano, Velletri, Lanuvio, Lariano. Resta in secondo piano tutta l’importantissima direttrice tuscolana: basta pensare a una città come Frascati, o a realtà con una grande storia anche di lotte contadine e di resistenza come Montecompatri. Anche per prendere atto di questa incompletezza, il sottotitolo di questo lavoro parla di musica, storia e storie dai e non dei Castelli Romani.
(…) Storie e vicende dei Castelli Romani hanno continuato ad arricchire il nostro archivio anche emergendo trasversalmente da altri progetti. Lo stile di lavoro del Circolo Gianni Bosio è sempre consistito in interviste a tutto campo, tali da collocare il tema della ricerca comunque dentro il contesto più ampio delle biografie degli intervistati. (…)
Finora infatti ho raccontato come se sui Castelli Romani avessi lavorato solo io. Ma dal momento della ricostituzione del Circolo Gianni Bosio nel 1999 nel nostro archivio hanno continuato ad affluire i risultati del lavoro di altri ricercatori, non necessariamente componenti del Circolo. (…)
Infine: quando ho cominciato a lavorare su questo progetto, riprendendo registrazioni ormai storiche di trenta o quarant’anni fa, mi sono reso subito conto che il mondo che esse esprimevano non esisteva più, almeno non in quella forma. La roccaforte rossa dei Castelli, la “piccola Mosca” di Genzano, era stata circondata ed erosa dai cambiamenti demografici e urbanistici, dalla crisi del comunismo e del movimento operaio, e dalla non entusiasmante fase politica degli ultimi vent’anni. Avremmo potuto lo stesso fermarci ai materiali raccolti allora, documentando la consistenza dell’archivio e proponendo un prodotto che avesse una valenza essenzialmente storica, un documento di come era la cultura popolare sul versante Appio dei Castelli Romani prima della “grande trasformazione” degli anni ’80 e successivi. Ma al centro del nostro lavoro sta la convinzione che la ricerca, come la storia, non finisce mai ed è sempre in trasformazione; che la memoria è essenzialmente un rapporto fra il momento ricordato e il momento in cui si ricorda, e che questo rapporto è anch’esso mutevole e sempre in atto. Riascoltando nel 2010 Ducci e Bocale che nel 1975 raccontavano del 1898, entrano in gioco non solo centoventi anni di storia, ma anche quarant’anni di storia della memoria: che cosa è stato raccontato, che cosa è stato dimenticato, e che cosa significa, nel corso di tutte queste generazioni.
[1] L’America della contestazione, a cura di Ferdinando Pellegrini e Alessandro Portelli, Dischi del Sole DS 179/81, 1970.
[2] Cfr. in questo volume La storia, non lo vedi, marcia verso la libertà (in ricordo di Silvano Spinetti).
[3] Ai quali è dedicata la prima uscita di questa collana, La Valnerina ternana, Roma, Squilibri 2011, curato con Valentino Paparelli.
[4] “L’uccisione di Luigi Trastulli: la memoria e l’evento”, ora in Storie orali. Memoria, immaginazione, dialogo, Roma, Donzelli, 2007, pp. 25-58.