Leggi l'introduzione di Giordana Charuty
In antropologia, come è noto, gli animali sono buoni da pensare. In ambito europeo, tuttavia, mancando etnografie che possano rinnovarne l’interpretazione, gli studi non sono affatto numerosi. Invitato, nel 1997, a ripercorrere l’avventura dell’antropologia del Mediterraneo a partire dalla famosa conferenza di Burg Wartenstein (1959), Julian Pitt-Rivers poteva certamente dichiarare che, pur assente dagli interessi di questo incontro fondatore, il ruolo dei bovini e degli ovini nelle religioni del Mediterraneo era ormai sufficiente, da solo, a giustificare l’affermazione di un’identità mediterranea. Ma, con riferimento alla prima categoria di animali, è essenzialmente sulle culture della tauromachia che si focalizza l’attenzione di Pitt-Rivers. D’altra parte, a differenza delle più frequenti concettualizzazioni che sono servite per pensare questa categoria regionale, lo spostamento dell’attenzione dalla religione al religioso ha rivelato la ricchezza delle logiche semantiche che hanno fatto del cristianesimo un sistema classificatorio coerente. Tale prospettiva ha però mostrato come sia piuttosto il maiale l’alimento cristiano per eccellenza, consentendo la lettura delle identità speculari tra ebrei e cristiani[1]. In ogni caso, sembra difficile sottoscrivere la più recente proposta di Philippe Descola di attribuire alle culture occidentali “certezze” di una ontologia naturalista che stabilisce, in vari modi, una irriducibile discontinuità tra la classe degli umani e tutte le altre specie animali[2].
Questo lavoro, dunque, viene opportunamente a rispondere all’esigenza di nuove ricerche che, approfondendo aspetti a prima vista minori delle società rurali europee, li reinserisca nel dibattito antropologico più attuale. Prendere come oggetto iniziale d’analisi gli usi cerimoniali dei bovini in Italia centrale non è tuttavia scontato. Si potrebbe infatti correre il rischio di riprodurre su scala regionale le analisi sociologiche sul rilancio delle tradizioni, sulla fabbricazione di un patrimonio culturale o, al contrario, quello di rilevare la scomparsa di un mondo facendo propri i giudizi di valore dei testimoni di questa scomparsa. Per evitare tale duplice trappola, Gianfranco Spitilli sceglie, innanzitutto, di condurre un minuzioso lavoro empirico che mobilita, con rigore, un ampio apparato di strumenti descrittivi – censimento, cartografia, osservazioni di lunga durata di una varietà di casi, racconti biografici, tecniche audiovisive – che dispiega tra Abruzzo, Molise e Lazio. Vengono così recensite circa un centinaio di feste. Oltre a questo, però, la descrizione analitica di una decina di insiemi cerimoniali cerca, con successo, di inserire progressivamente le pratiche in tal modo documentate in alcune ampie problematiche che vengono a unificare l’infinita varietà degli usi empirici che, di volta in volta, danno origine al bue di San Zopito a Loreto Aprutino, all’uscita del Bov Fint a Offida o anche al “toro ossequioso” della Madonna della Neve a Bacugno di Posta.
Una di tali problematiche – ma ve ne sono altre – è, appunto, la dimensione pienamente cristiana di questi insiemi cerimoniali, che ribalta la squalificazione “pagana” regolarmente attribuita dalle élite clericali e troppo spesso adottata come categoria analitica dall’osservazione colta. Occorre inoltre distinguere accuratamente le forme espressive, gli attori e le competenze che fanno passare l’animale dalla sfera delle tecniche agricole proprie delle antiche società rurali a quella dei suoi usi festivi.
Nel corpus delle tradizioni eziologiche europee – un genere narrativo mobilitato per riaffermare un ordinamento simbolico del mondo naturale e sociale che reca l’impronta del cristianesimo – la presenza del bue è limitata ai racconti della Natività, nella misura in cui essi sono piuttosto incentrati sulla vita di Cristo. I racconti catalani spiegano quindi che il mantello dell’animale, toccato dalla mano di Gesù, assume un colore dorato, mentre l’asino che si è rallegrato della nascita di Cristo riceve il dono di ridere[3]. Occorre rivolgersi a un’altra categoria di racconti – le leggende di fondazione dei santuari e delle apparizioni mariane – per riconoscere l’onnipresenza di questo animale domestico e del suo doppio selvaggio, il toro, per pensare la messa in relazione delle comunità umane con i santi e la Vergine. Da questo punto di vista, il corpus dei racconti leggendari riuniti da Gianfranco Spitilli testimonia una grande ricchezza e, soprattutto, la notevole vitalità di questa parte troppo spesso dimenticata del cristianesimo tradizionale.
L’autore rinnova la lettura di insiemi festivi che sono già stati oggetto di numerose descrizioni e interpretazioni in chiave magico-religiosa, interessandosi a dettagli finora ignorati dai commentatori e, soprattutto, ristabilendo in ciascun caso la complementarietà delle competenze e dei gesti distribuiti tra il clero e i maestri tradizionali, che si tratti della presenza del vitello di Sant’Urbano a Bucchianico, oppure, per il ritorno della SS. Croce a Pastena, della stretta unione del Maestro di festa e del parroco. Allo stesso modo, si scopre l’importanza dei saperi femminili nella trasfigurazione estetica che, a Larino, permette all’animale di ricongiungersi al santo. A partire da questa ricostruzione, l’autore è in grado di restituire con finezza l’“inquietudine interpretativa” che si impadronisce dei suoi interlocutori quando, sollecitati dalla curiosità dell’etnografo, prendono a loro volta coscienza della stranezza dei loro modi di “fare i santi”, esplorando metodicamente i confini problematici che separano gli esseri umani dagli animali. Le logiche di congiunzione e di disgiunzione tra le tre categorie di attori rituali si trovano così al centro di un comparativismo regionale in cui “il bue di san Zopito” può dialogare con la “vitella di sant’Elena” per rispondere agli stessi interrogativi: in che cosa gli umani si differenziano dagli animali? In che cosa i santi si differenziano dagli umani?
Ma non è tutto. Spostando lo sguardo dall’evento cerimoniale ai suoi preparativi, Gianfranco Spitilli mette giustamente al centro della sua attenzione la sottigliezza dei saperi mobilitati nella fase di addestramento dell’animale. Quando si tratta, ad esempio, di permettere al bue di “fare il suo dovere”, queste competenze, che un tempo erano trasmesse di padre in figlio all’interno delle linee di discendenza familiare, sono messe al servizio di una duplice trasformazione. La prima tende certamente a “cristianizzare” il bue attraverso una graduale e molto precisa successione di tecniche di addestramento che lo umanizzano assimilandolo, paradossalmente, a un’altra specie animale, come indicano le molteplici associazioni con il cavallo. Quanto al “maestro del bue”, anche lui deve riaffermare, ogni anno, un modello di virilità compiuta, incarnando un ideale di autorità che valorizza il potere della parola rispetto a quello della forza. Ma questo potere possiede il suo contrario “magico”: i suoni acuti della zampogna che permettono di “addormentare” o di “incantare” l’animale. E l’autore ci descrive bene alcune delle figure che incarnano questi due poteri contrapposti.
Attraverso le trasformazioni dei cerimoniali, nel corso degli anni, si delineano rilevanti trasformazioni sociologiche delle società rurali. La violenza dei conflitti con la Chiesa ai tempi dell’influenza della Democrazia Cristiana ha dunque potuto portare alla comparsa di buoi “comunisti” che si inginocchiano davanti a un ritratto di Stalin, mentre non possono farlo davanti alla statua del santo patrono. Lungi dal provocare la scomparsa di queste usanze, la meccanizzazione dell’agricoltura le ha, in un certo senso, tirate fuori dal loro inserimento nelle antiche gerarchie sociali per collegarle invece al campo della competenza comunale e alle funzioni festive assunte dai movimenti associativi. Immobilizzato nel suo statuto di animale festivo, il bue del santo richiede ormai cure professionalizzate mentre la trasformazione delle pratiche devozionali in “tradizione” può coesistere con una dichiarazione di ateismo.
Una volta chiuso il libro, il lettore sarà indubbiamente convinto che tutte queste pratiche sono proprio, come dice un interlocutore dell’autore, “una grande cosa”! Ma, inoltre, queste analisi minuziose, sostenute da un’esigenza di ricerca di senso, aprono prospettive interessanti per un’antropologia generale delle relazioni tra l’uomo e l’animale in ambito europeo. L’autore ci invita giustamente ad ampliare il bestiario delle società rurali per porre questi “rituali bovini” – e lo statuto mutevole dell’animale che essi modellano – in rapporto alla varietà dei giochi taurini rispetto ai quali un’analoga scelta di metodo ha già proposto un’analisi coerente delle modalità di allevamento e di spettacolarizzazione, a partire dalle loro proprietà formali e dalle loro trasformazioni strutturali.
Giordana Charuty
(traduzione di Adelina Talamonti)
[3] Albert-Llorca 1991: 158.