Il primo capitolo
Camporeale, gennaio 1988.
Sulle curve che introducono il monte Iato giungeva puntuale l'odore forte dell'eucalipto, segno che casa non era più lontana. Le colline di grano e cocomero facevano il verso alle vigne in un rimbalzo di verdi e marroni che neanche il cambio di stagione riusciva a governare. E mentre un trattore rallentava la mia corsa con il suo sbuffo di fumo, pensai "la prima cosa è un caffè da Don Calogero, in piazza".
Non che a Palermo ci si potesse lamentare, ma quello del Maciddaru[1] era di un altro livello: aveva la miscela giusta, l’arabica era profumata e giocata sul filo del retrogusto. E io me ne intendo. Il mio sogno era un baretto stile viennese, con i tavolini di legno scuro e rotondi, le sedie liberty e un cameriere all'antica con il papillon e la giacca di panno chiara.
Prestavo servizio come aiuto medico in un quartiere del centro. Ogni tanto arrivava un pensionato caduto dalle scale o un dodicenne con il braccio rotto per una caduta dal motorino del fratello maggiore. Succedevano anche cose antipatiche, inutile negarlo. Il picciotto con la ferita d'arma da fuoco che entra e ti dice: amuninni ca aiu prescia. Tu lo guardi in silenzio e in quello scambio di occhiate si addensano storie e destini di generazioni intere.
La torre d'acqua sulla sinistra annunciava l'arrivo al paese vecchio, quello sopravvissuto al terremoto del 1968, dove tutti avevano deciso di rimanere nonostante le palazzine fatte costruire dallo Stato un paio di chilometri più in basso, con i cani randagi a rincorrere la loro solitudine fra le stradine vuote nel lungo riverbero del fondovalle.
Don Calogero era seduto su una sedia di legno sulla porta del bar, fumava una delle sue sigarette senza filtro. Alzandosi, al mio arrivo, si lasciava scappare una smorfia di dolore che tradiva i tanti anni trascorsi dietro il banco dove campeggiava la vecchia Gaggia rossa a tre mandate.
"Com'è Don Calogero, tutt'a posto?"
"Una mattina mi susu e mi dicu: domani chiudo e non se ne parla più. D'altronde chi me lo fa fare? Ormai mio figlio è a Bologna, mia figlia a Vigevano e io fra poco faccio settantatré anni. Mica posso tenere il bar aperto solo per te. E se poi ti trasferisci pure tu, a chi lo faccio il caffè?" Poi, abbassando la voce: "non mi piace come si stanno mettendo le cose da queste parti. L'aria sta diventando irrespirabile".
"Don Calogero, è troppo pessimista. Mi dice le stesse cose da almeno cinque anni, e come vede iu sugnu sempre cca', e lei pure. E poi lo sa che io sono troppo attaccato al paese. Palermo è bella ma è troppo grande, troppu trafficu, troppe macchine...”.
Lui non rispose e io guardai fuori dalla porta. La piazza del Maciddaru, alle prime ombre della sera, era semideserta. Le poche vetture in entrata si arrampicavano salendo in direzione del camposanto. Mio padre riposava lì da cinque anni e non aveva avuto la soddisfazione di vedermi laureato: io, unico figlio, e con mia sorella che di scuola non ne aveva voluto sapere.
"Don Calogero, mi dicissi na cosa, ma lei lo conosceva bene mio padre?" Don Calogero apparve sorpreso dalla mia domanda.
"Tuo padre, qui in paese, bene non lo conosceva nessuno. Quando tornò dalla Germania poi, sembrava un'altra persona. Don Vincenzo, ma ha bisogno di qualche cosa? gli chiedevo. Ma lui mi rispondeva sempre No, e picchì?"
Da quel che sapevo, a Camporeale erano in molti a domandarsi come mai fosse prima emigrato in Germania e poi, dopo appena un anno, fosse tornato in fretta e furia in Sicilia.
"Io me lo ricordo benissimo come era arrabbiato lo zio Rocco quando tuo padre decise di partire - continuò Don Calogero - Tutte le mattine mi ripeteva la stessa cosa: ma che ci va a fare in Germania? Qua il lavoro per Enzuccio non manca! Ma lui da quell'orecchio non ci sentiva e così un giorno se ne andò a Wolfsburg".
Ci si aspettava di non rivederlo per un bel po' di tempo e invece, per la sorpresa di tutti, era tornato presto. A me piace pensare che gli mancasse la famiglia, mia sorella era piccola e mia mamma era incinta di me.
"Vacci a trasiri, nna a testa d’i cristiani" continuò Don Calogero scuotendo la testa. "S'arricampò e basta e quannu c'addumannavamu d’a Germania diceva solo ch'era friddu e si manciava male. E del caffè manco a parlarne."
"Già, il caffè..." dissi sorridendo. E allora Don Calogero mi colse alla sprovvista.
"Nanà ma picchì m'addumanni ‘sti cosi? Tu non lo conoscevi tuo padre?"
Le mie parole rimasero incastrate a lungo fra i denti. No. Non lo conoscevo abbastanza o almeno non quanto avrei voluto.
"Don Calogero, ho passato tutta la vita a studiare, prima qui e poi a Palermo per il liceo e l'università. Mi sarebbe piaciuto dargli la soddisfazione di vedermi medico e invece è morto poco prima che io mi laureassi. Quel paio di anni fuori corso hanno fatto la differenza e io non me lo perdonerò mai".
Mio padre era andato via senza fare rumore. D'altronde aveva vissuto tutta la sua vita in un torvo silenzio. Lo trovarono nel suo letto con un sorriso smorto sulle labbra. Il cuore aveva ceduto all’improvviso, anche mia madre non si era accorta di nulla. Io lo ricordo quando, all'imbrunire, tornava dalla campagna dove aveva viti e grano. La coppola e le mani rugose come tronchi d'albero, le falangi gonfie e i palmi screpolati, la pelle di legno scuro, perennemente abbronzata, e gli occhi piccoli e febbrili. Mai un sorriso né una parola di troppo. Ogni tanto Zio Rocco veniva a prenderlo dopo cena per andare al bar di Don Calogero. Da bambino, la domenica, mi concedevano di andare con loro, e d'estate ci scappava pure un ascaretto[2]. Mio padre e zio Rocco erano molto legati, ma avevano un rapporto che definire complicato sarebbe poco. Lo zio non si era sposato e mi considerava come il figlio che non aveva mai avuto. Ma papà aveva posto una condizione: suo fratello non doveva coinvolgerci nelle sue scelte. Rocco Conigliaro era un uomo della famiglia dei Tacco di Camporeale, schierata con i corleonesi, sulle posizioni violente del capo dei capi di Cosa Nostra. Nonostante le insistenze di suo fratello, papà si era mantenuto sempre distante da queste compagnie, per quanto non riuscisse a nascondere una sorta di reverenza nei confronti di quelle persone che in paese facevano il bello e il cattivo tempo. Papà aveva preso un’altra strada, la più adatta alla sua indole pacifica e introversa, deludendo le attese dello zio Rocco ma con grande sollievo da parte di mamma.
Donna Maria, mia madre, veniva dalle Madonie, da un paese a mille metri d'altezza dove d'inverno c'erano sempre due palmi di neve. Da bambino trascorreva lì l’estate con mia sorella Francesca e ricordo perfettamente il freddo di quelle sere che ci obbligava ad indossare un maglione di lana. Volevo bene ai miei nonni ma stare a Ganci mi annoiava da morire.
Quella sera mia madre mi aspettava, come sempre, seduta al davanzale della finestra, mentre mia sorella guardava la televisione, sdraiata sul divano. Il tubo catodico trasmetteva immagini che fino a qualche anno prima sarebbero state improponibili ma le televisioni private avevano sovvertito le regole della tv di stato con il loro intrattenimento sboccato e volgare. E il paese celebrava così le sue serate davanti al piccolo schermo, in un tripudio di ballerine seminude e di squallide battute a doppio senso.
Francesca passava davanti alla televisione tutta la giornata e conosceva a memoria i personaggi e i programmi elencati dal giornaletto che acquistava ogni settimana in edicola. Si era innamorata di un malvivente, tale Pietro Marino, un soldato della cosca dei Tacco "pizzicato" per spaccio di stupefacenti e poi rinchiuso al carcere dell'Ucciardone. Ogni sabato mattina mia sorella andava a fargli visita e per mezza giornata riacquistava la luce del suo sorriso. Mamma non vedeva di buon occhio la loro relazione ma si guardava bene dall'intromettersi per evitare di inasprire il loro già complicato rapporto. Si limitava, di tanto in tanto, a borbottare qualcosa tra i denti ma nulla di più. Anche se ragioni per alzare la voce ne avrebbe avute molte: aveva lottato una vita per tenere suo marito alla larga dalla criminalità e ora rischiava di ritrovarsela in casa perché sua figlia si era innamorata di un delinquente.
Quella sera Francesca spense la tv prima del solito e senza neanche salutare si chiuse in camera sua.
"A che punto sei mamma?" le chiesi indicando la coperta che stava ricamando da settimane. In quel lavoro che le teneva occupate le mani sfogava le ansie e le preoccupazioni.
"Per finirla ci vorranno ancora un paio di mesi. Guarda qui il disegno dell'aquila, è perfetto! Verrà una meraviglia, però rischio d'appizzarci l'occhi perché ci vuole una grande precisione. E molto tempo. Chiddu ca mi manca!"
"E tu pigghiatillu u tempu. D'altra parte che problemi ci sono?"
"I problemi ci sono, eccome. La vedi tua sorella? Che cosa dobbiamo fare, secondo te?"
"Finisco la specializzazione e quando apro l'ambulatorio la prendo a lavorare con me come segretaria. E poi, vedrai che si stanca di aspettare Pietro. Lo sai che quello si deve fare tre anni di carcere? Tu ce la vedi Francesca andare avanti e indietro dall'Ucciardone per tutto questo tempo?"
"Nanà, gli amici suoi fra un paio di mesi lo fanno uscire. Tuo zio Rocco si sta già interessando."
Guardai mia madre con sorpresa e preoccupazione.
"Gliel'ha chiesto Francesca?"
"Sì. Tramite i Tacco sta mettendo in moto conoscenze che stanno in alto. Funzionari di polizia e perfino magistrati". La notizia mi fece gelare il sangue nelle vene.
"Mamma, noi da queste storie dobbiamo rimanere fuori! Io con quella gente non ci voglio avere a che fare!"
"Nanà, glielo dici tu a tua sorella? E poi comunque oramai è tardi" disse, senza alzare gli occhi dal lavoro. Anche quando le sue parole si caricavano di rabbia o di preoccupazione, la sua attenzione non si spostava di un centimetro dal cerchio di legno dove l’ago penetrava la stoffa e le sue dita si muovevano rapide. Quell'arte del ricamo, tramandata per centinaia di anni, di generazione in generazione, era la dote che le donne siciliane portavano all'altare. Non importa quanto fossero povere o poco istruite.
"Vai a letto, ché domani alle sei e mezza ti suona la sveglia", disse per concludere il discorso.
Dalla mia finestra vedevo quasi tutto il paese. U Maciddaru si estendeva su un'irta collina dalla cima della quale potevo dominarlo per intero. Fumavo la mia sigaretta quotidiana appoggiato al davanzale e la luce fioca del lampione entrava in camera mia. Guardavo il bellissimo orizzonte, appena percepibile nell'oscurità, ascoltavo il silenzio della notte e mi rendevo conto di come il tempo, dalle mie parti, si fosse quasi fermato: tra Camporeale e Palermo c'erano cinquanta chilometri e trecento anni di distanza.
Fra le strade del Maciddaru potevi sentire gli stessi odori di sempre senza il pericolo di vederli scomparire da un momento all'altro: quello forte dello sterco dei cavalli che si mescolava, nel vento, all’odore fragrante del pane appena sfornato. Meravigliose erano i profumi dei fiori in primavera, quando tutto risorge dalle ceneri di marzo nell'attesa che le giornate possano di nuovo allungarsi e raccontarci, nel loro splendore, il romanzo della vita, con i suoi drammi e le sue gioie.
Da quella finestra il mondo mi sembrava fantastico e ogni cosa possedeva un suo significato profondo e ineluttabile. Nella visione di quelle stradine solitarie e nel silenzio assoluto che le ammantava trovavo quanto invano cercavo altrove, la perfezione di modi e forme che alberga solo nei pensieri di un infante o di un sognatore. Anche quella notte i miei occhi si chiusero rapidamente.
[1] Il nome in siciliano di Camporeale
[2] Gelato tipico siciliano al cioccolato.