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Li abbiamo scovati tra coloro che hanno saputo salvare la tradizione, tutelarla, reinterpretarla, innovarla. La loro caparbietà orgogliosa, la loro illuminata ostinazione nel non lasciare che l’oblio cancellasse per sempre gli antichi saperi, andava riconosciuta e premiata.
Ecco perché abbiamo deciso di portarli alla ribalta, dando ad essi il giusto riconoscimento che la collettività nazionale deve all’opera che hanno saputo svolgere, tutelando saperi antichi che qualcuno avrebbe voluto, frettolosamente e dissennatamente, archiviare in maniera definitiva come inutili ferrivecchi da consegnare all’oblio.Abbiamo voluto dire loro, simbolicamente, un grazie collettivo per ciò che hanno fatto e che continuano a fare attribuendogli un Premio come testimoni della tradizione e della cultura popolare.
Lo abbiamo fatto nel contesto di un’iniziativa, il Festival delle Province, che è nata e si è sviluppata nella convinzione che nella provincia italiana ci fossero dimensioni di creatività culturale meritevoli di maggior attenzione. Abbiamo trovato un tesoro, nemmeno troppo nascosto, che richiedeva soltanto di essere riportato all’attenzione che merita. In esso sta non solo il presente, ma soprattutto il futuro di una società ricca di diversità com’è quella della nostra penisola, in cui la capacità di unire tradizione e innovazione, in una dinamicità culturale che contrappunta, con forza, la creatività del territorio, fuori dai modelli d’importazione o da quelli drogati dall’industria della comunicazione di massa che crea ogni giorno, artificialmente, i suoi idoli.
Oggi identità, storia, memoria, cultura, rappresentano componenti significative in quello che viene chiamato “brand” territoriale, strumento efficace nel rilancio dello sviluppo in epoca di globalizzazione. Richard Sennett colloca, tra le conseguenze involontarie della globalizzazione, di «avere valorizzato il valore dei luoghi» e innescato il desiderio di comunità che ne consegue. Ma il legame comunità-località non è più un tratto necessario o destinale. Ha scritto Geertz: «che il mondo in ogni sua località stia diventando sempre più simile a un bazar kuwaitiano che a un club per gentiluomini inglese… appare rovinosamente chiaro… la maggior parte di noi incontra oggi serie difficoltà nel determinare con esattezza il centro di questo immenso assemblaggio di differenze sovrapposte».
Siamo ormai proiettati verso una “folla solitaria”, nella quale ogni individuo globalizzato è, apparentemente, in relazione con il mondo, in realtà è sempre meno in contatto sociale con la sua comunità e ha perso, o rischia di perdere, i punti cardinali di orientamento rappresentati dai valori storici e culturali che vi si connettevano. L'insicurezza alimenta nostalgie dell'Heimat, dell’identità, con il territorio inteso come spazio e luogo ma anche tempo, affetti, sentimenti. Sembrano queste le residuali ancore di salvezza nel mare di un'identità in frantumi. Un atteggiamento che non è esente da pericoli e che rischia di alimentare tribali pretese al primato dei nativi sugli arrivati, degli autoctoni sui migranti, se non si tiene conto che ogni identità non è singola, ma plurale, risultato di contaminazioni continue con l’altro da sé.
Quando si guarda al territorio non è dunque possibile prescindere da un lavoro sulla “comunità affettiva”, perché nessuna azione di valorizzazione è efficace se non si esercita e si riconosce all’interno di una comunità che sappia essere “comunità di sentimento", non di sola ragione, non di meri interessi.
In questa riaffermato rilancio del territorio e delle sue valenze culturali locali è dunque necessario riscoprire la tradizione autentica -da cui si può partire per sue possibili attualizzazioni- piuttosto che inventare tradizioni presunte, o peggio ancora fasulle, che inseguono il desiderio di un ritorno all’antico, sull’onda del bisogno collettivo di identità locale, unicamente per finalità di speculazione economica e di profitto.
(…) Stanchi di modelli preconfezionati cerchiamo quell’autenticità cui spesso abbiamo rinunciato per inseguire modernità ben presto rivelatesi solo di facciata. Abbiamo reciso il cordone ombelicale con ciò che siamo stati e questo rischia di disorientare, sottraendoci mappe per il futuro che abbiamo ritenuto superate e senza le quali rischiamo di perdere la strada, brancolanti in un divenire senza valori e punti di riferimento.
I testimoni della tradizione e della cultura popolare non sono caduti nella trappola. Hanno atteso, con pazienza, che l’ubriacatura collettiva finisse di inseguire l’effimero, il vano, per recuperare l’autenticità di un vissuto collettivo offrendoci così la possibilità di riannodare quel filo reciso con la nostra storia, le nostre radici.
Sono loro le persone che hanno reso possibile la ripartenza di una società che altrimenti sarebbe stata, culturalmente, assorbita da quei modelli globalizzati che inseguono omologazione e standardizzazione, “format” dell’intrattenimento prima, delle coscienze subito dopo. Ci hanno regalato percorsi umani, prima ancora che artistici, durati un’intera esistenza e dedicati alla tradizione vera e vitale che nasce dall’intensità del vivere il proprio territorio e le proprie radici culturali.
Avremmo voluto chiamarli “presìdi” in analogia all’efficace termine impiegato per designare quei gioielli dell’enogastronomia che Slow Food ha voluto e saputo salvare con un grande movimento fondato sulla parola d’ordine “buono, giusto, equo”. Ne hanno eguali caratteristiche: la preziosità che deriva dal rischio di perdita repentina, e il fatto di costituire quelle autentiche e fragilissime “biblioteche viventi”, espressione efficace con cui Jorge Luis Borges definì ogni persona, per la ricchezza di sapere sedimentata nell’esistenza di ognuno.
Il Testimone deve rispondere ad alcuni requisiti fondamentali. Innanzittutto avere, ben radicato, un legame effettivo, profondo, fatto di memoria, continuità, capacità di riproposta, con il territorio di cui esprime la tradizione; in secondo luogo saper rappresentare la cultura popolare del territorio attraverso criteri artistico-performativi, demoetnoantropoligici, e artigianali; in ultimo garantire la “tracciabilità” del suo percorso di ricerca e sentirsi investito della necessità di trasferire il proprio sapere alle giovani generazioni, affinché la tradizione possa non interrompere la sua naturale evoluzione ed abbia quindi l’opportunità di rinnovarsi con rispetto e coerenza.
Per noi, infatti, sono “Testimoni” a significare, da un lato la loro capacità di testimoniare la cultura che portano in sé e che hanno avuto in eredità dalle generazioni che li hanno preceduti, dall’altra di essere naturalmente predisposti a trasmetterla alle nuove generazioni, di cui si sono circondati, in un ciclo naturale di sapienze che non si esauriscono.
In questo passaggio simbolico vi è, metaforicamente, anche quella capacità di trasformazione dinamica che apre le porte alla modernità, all’evoluzione filologicamente corretta verso l’introduzione di elementi innovativi che danno all’identità culturale la sua capacità di essere viva, adeguata ai tempi, che vi è solo se è in grado di continuare a essere storia del presente e viatico verso il domani. E’ in questo modo che la pianta madre della tradizione può dare, senza il rischio di crisi di rigetto, germogli di futuro.
(…) Con il resoconto giornalistico di questi incontri ci siamo proposti di mettere in risalto il contesto che ha favorito la maturazione di una fiducia -a volte anche inconsapevole- nei confronti di ciò che i Testimoni hanno ereditato e che non si sono rassegnati a considerate merce scaduta, superata. Ne sono nate queste testimonianze, cronache senza pretese scientifiche né letterarie, con cui speriamo di restituire almeno una parte delle emozioni che abbiamo incrociato.