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Questo lavoro è la ripresa ragionata, l’approfondimento e l’aggiornamento di un progetto di “ricerca e intervento” che negli anni ’70 risultò soprattutto nell’attività dei cantori del Gruppo della Valnerina (Dante Bartolini, Americo Matteucci, Luigi Matteucci, Trento Pitotti, Pompilio Pileri) e nell’uscita del long playing La Valnerina Ternana. Una proposta di ricerca-intervento (1972-1975), pubblicato dai Dischi del Sole. L’idea di fondo, legata ai progetti di intervento politico e di trasformazione sociale ancora così vivi in quegli anni, era che la ricerca sul campo della musica e della cultura popolare non servisse solo a fini di documentazione e di studio, ma fosse anche un “intervento” destinato a trasformare la soggettività dei ricercatori e dei loro interlocutori e ad influire nel contesto sociale in cui avveniva la ricerca e da cui scaturivano le forme espressive.
Così, fare in modo che un gruppo di cantori popolari, a cavallo fra il mondo contadino della Valnerina e il mondo operaio delle acciaierie di Terni, passassero dal cantare in casa o in osteria o nelle feste a cantare nei teatri di Roma o di Francoforte era sicuramente un atto di decontestualizzazione, ma anche una sfida ai cantori stessi affinché esplicitassero la loro consapevolezza dell’importanza e del significato della loro cultura, dessero forma alle modalità espressive di cui erano in possesso e ne rendessero consapevoli ascoltatori e artisti in un contesto nazionale e internazionale, assumendosi la responsabilità e le possibilità di un diverso protagonismo – a cui comunque l’ex partigiano Dante Bartolini, l’operaio edile Amerigo Matteucci, sindaco comunista di Polino, e i loro compagni, certo non si sottraevano ma che assumevano anche come una fase nuova del loro impegno di tutta una vita, senza per questo smettere di divertirsi a cantare e a raccontare. Al tempo stesso, il fatto che il loro repertorio diventasse parte del patrimonio di artisti come Giovanna Marini, il Canzoniere del Lazio, Lucilla Galeazzi contribuiva ancora a fare di questa cultura “locale” una ricchezza e una risorsa che investiva la città e il mondo della cultura. E il racconto “sbagliato” della morte di Luigi Trastulli, registrato in treno durante uno dei viaggi col Gruppo della Valnerina, è diventato un punto di riferimento e una citazione obbligatoria in tutto il movimento internazionale della storia orale. Contributi niente male, per un gruppo di persone con poca scuola e appartenenti al mondo delle classi cosiddette “non egemoniche”.
Alla base di questo lavoro di organizzazione culturale stava la scoperta di un territorio come il circondario di Terni, e in particolare la bassa valle del Nera, in cui l’industria moderna era stata calata dall’alto già tutta armata e finita, senza quindi che il mondo rurale circostante avesse il tempo di dimenticare i suoi saperi (Dante era operaio metallurgico, partigiano, conoscitore di erbe medicinali, ammazzatore di maiali, cantore e narratore orale) e poteva quindi usarli per fare i conti con la nuova realtà. Di qui, per esempio, l’uso dei canti di mietitura per parlare della Resistenza: l’idea di tradizione che ci veniva dai compagni della Valnerina era quella di un processo di continua crescita e trasformazione. L’esempio che più ci convinceva era quello dello stornello che era quasi il marchio di fabbrica di questa cultura: io dormo fra le pecore e li cani/ pe’ fa’ magna’ l’agnellia li padroni. All’inizio era una strofa pastorale (io dormo tra le pecore e li cani/ pe’ fa’ magna’ l’agnelli a li romani), che Pompilio Pileri, pastore transumante, aveva riportato (insieme al canto di Carbognano) dal suo andare e venire per la campagna romana: un’espressione del risentimento della campagna verso la città. Nella Valnerina del bracciantato e del residuo latifondo, era diventato io dormo fra le pecore e li cani/ pe’ fa’ magna’ l’agnelli a li signori; e quando i braccianti e i contadini erano entrati in fabbrica, i romani e i signori erano diventati i padroni. Nelle osmotiche sostituzioni di una parola all’altra stava tutta la storia dalla pastorizia all’agricoltura all’industria (e naturalmente la trasformazione di quegli agnelli da dato letterale in metafora). Di conseguenza, diventava evidente il riconoscimento della tradizione come un dato della contemporaneità. Certi stornelli di Amerigo Matteucci hanno la stessa vena satirica delle contemporanee vignette (allora) di Forattini o poi di Vauro.
Il disco fu, dunque, uno dei risultati del lavoro di ricerca iniziato nella primavera del 1972 e protrattosi fino alla fine del decennio, che ha riguardato la zona della Valnerina ternana e in particolare i comuni di Arrone, Montefranco, Ferentillo, Polino, Terni. Risultato di una ricerca che non aveva fini solamente conoscitivi, ma anche di intervento e di organizzazione di base, esso voleva documentare anche queste caratteristiche del lavoro svolto ed è servito da strumento per le fasi successive dell’intervento. Il disco che facemmo era anche il risultato di queste riflessioni: anziché la “genuinità” dell’“autentico folklore delle nostre regioni”, mettevamo in evidenza i contatti, le influenze reciproche, quelle che poi si sarebbero chiamate con termine usurato le “contaminazioni”: la chitarra di Piero Brega e il Canzoniere del Lazio dietro il canto di Amerigo Matteucci (e l’effetto “normalizzatore” dello strumento sulla voce), il dialogo cantato e suonato di Dante Bartolini con Giovanna Marini, perfino il Brecht messo in musica dagli operai-attori delle Acciaierie e dal Gruteater. Per questo, quando si è presentata la possibilità della ristampa del disco, in un primo momento abbiamo pensato alla possibilità di ampliarlo, di inserire nuovi pezzi rimasti fuori (i limiti di tempo del long playing erano assai più ridotti di quelli del CD); ma alla fine abbiamo visto che era impossibile: il montaggio stretto (fra l’altro, senza separazioni di traccia, in modo da creare un dialogo fra i vari brani e le varie voci) era un discorso magari datato ma coerente; e un discorso che, anche se oggi dopo più di trent’anni noi e (se fossero ancora con noi) i cantori useremmo forse altre parole, ci pare ancora sensato.
Così, la prima parte del primo dei due CD che presentiamo (tr. 1-17) è la riproduzione integrale del disco originale. La maggiore disponibilità di spazi del CD ci permette però di arricchirlo con una serie di tracce aggiuntive che rappresentano materiali che rimasero allora fuori del disco per varie ragioni. In primo luogo, alcune canzoni narrative e rituali, un po’ sacrificate dal taglio di ricerca/intervento; poi dei brani di Dante Bartolini e Trento Pitotti che erano stati inseriti in un altro disco (La Sabina) perché si riferivano a episodi della lotta partigiana in Sabina o perché quando lo conoscemmo il grande Trento Pitotti abitava a Labro, in provincia di Rieti.
Anche se il disco originario e i materiali aggiuntivi proposti in questo CD documentano una fase specifica della storia della ricerca sulla cultura popolare in Italia e un momento specifico della cultura popolare della Valnerina – sostanzialmente, gli anni ’70, che evidentemente non furono solo “anni di piombo” – tuttavia, questa storia non si esaurisce interamente con quella fase. Certo, molte cose sono cambiate. I grandi protagonisti – Dante Bartolini, Americo Matteucci, Trento Pitotti, Pompilio Pileri – sono tutti scomparsi. È scomparso il contesto sociale e politico da cui traevano senso le loro canzoni, i loro racconti, le loro passioni, il loro linguaggio: è scomparso il Partito Comunista (e ciò che ne ha preso il posto, bene o male che sia, sembra avere comunque meno capacità di evocare passione, partecipazione e speranza). Ed è scomparso il senso del futuro: quel senso che permetteva ad Americo Matteucci di proclamare “io sono sempre alla rivoluzione”, o che permetteva a Dante Bartolini, appena ricevuta la lettera di licenziamento nel 1952, di cantare “non è lontana la grande vittoria”. Perché anche la difesa del posto di lavoro gli sembrava comunque non solo una drammatica battaglia di sopravvivenza (come in buona parte sono stati, nella sua stessa fabbrica diventata ThyssenKrupp, i grandi scioperi del 2004-2005), ma un passo verso un mondo migliore, di cui lui e la sua classe erano gli araldi e i protagonisti (“il socialismo è la nostra speranza…”).
Oggi la musica popolare è studiata e praticata in modo assai meno improvvisato di come facemmo noi allora, ed è sicuramente meno marginale sia nel mondo universitario che in quello dello spettacolo. Ma sono decisamente più marginali nel mondo della politica e della partecipazione democratica quelli che ne erano allora i portatori, ed era questo che a noi allora importava, e che ci importa ancora oggi. Se è vero che, come diceva Woody Guthrie, “folk song is big if labor is big”, la musica popolare cresce se cresce il movimento operaio, è nelle trasformazioni delle forme dei rapporti e dei conflitti sociali, in un tempo in cui ci si ricorda degli operai solo quando muoiono bruciati vivi (e non sempre), che vanno cercate le ragioni della distanza che oggi sentiamo rispetto a quell’esperienza.
E tuttavia non tutto è scomparso. Sono il risultato e la continuazione di quella ricerca in Valnerina libri di storia orale che sono diventati canonici anche sul piano internazionale e la ricerca di Valentino Paparelli documentata nel volume con quattro CD, L’Umbria cantata. Risultati diversi, ma altrettanto importanti, sono quelli che quella ricerca ha fatto sentire nel tempo anche nel mondo del teatro. Su molte nostre registrazioni era costruita infatti la colonna sonora di Sirena dei mantici di Ascanio Celestini, Lucilla Galeazzi e Marco Gatti, prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria nel 2003 e approdato in molti teatri italiani (e d’altronde all’inizio della sua carriera Celestini riproponeva brani del repertorio della Valnerina che aveva appreso dal disco del Canzoniere del Lazio). E anche Avanti pop dei Têtes de Bois, andato in scena tre anni più tardi “nei luoghi scomodi che hanno visto svolgersi e consumarsi le battaglie per il lavoro, intorno alle ombre del passato e dell’omertà e della speranza di oggi”, ha usato racconti e canzoni tratte dalla nostra ricerca. Tra quei luoghi, a Terni fu scelto per la rappresentazione il piazzale del Videocentro, ultima mutazione postmoderna di una fabbrica storica della città, le Officine Bosco, insieme alle Acciaierie la più prolifica “scuola di lotta politica e sindacale”. Era proprio il 12 dicembre. E quando Lucilla Galeazzi, nel freddo siderale di quella serata, attaccò la canzone forse oggi più nota ed eseguita di Dante Bartolini (Il dodici dicembre a mattina/ brutta sorpresa le nostre famiglie…) sui licenziamenti dei primi settecento operai alle Acciaierie nel 1952 molti occhi si inumidirono e molti sguardi si scambiarono cenni d’intesa.
Al di là dei cambiamenti, tuttavia, ricercatori di una generazione più giovane, come Alessandro Toffoli ed Enrico Grammaroli (del Circolo Gianni Bosio), hanno ascoltato in Valnerina segni non trascurabili di una tradizione musicale vitale e capace di innovarsi: ventenni campanari di Arrone che usano le campane della chiesa come strumento ritmico, un uso dell’organetto a Ferentillo da parte di un musicista giovane, più virtuoso ma forse meno creativo di Pompilio Pileri. E le canzoni di Trento Pitotti sono ricordate e cantate, a quarant’anni di distanza, dalle sue figlie, e appassionatamente conservate dai suoi nipoti. Certe volte, l’idea che la tradizione popolare si sia estinta o si stia estinguendo deriva solo dal fatto che in troppi hanno smesso di andarla a cercare.
Lo stesso senso di trasformazione, continuità e impatto culturale è alla base del secondo CD, dedicato alla riproposta dei repertori della Valnerina da parte di artisti del folk revival e della scena musicale: Giovanna Marini, Lucilla Galeazzi, il Canzoniere del Lazio (in due diverse incarnazioni), Piero Brega persino con gli Almamegretta, Sara Modigliani e La Piazza. In nessun caso si tratta di riproposte “filologiche”: per questo, esistono per fortuna le registrazioni originali. Si tratta invece del modo in cui questi suoni e queste parole hanno attraversato le barriere culturali, continuando a trasformarsi e diventando patrimonio di musicisti coinvolti, come i cantori e narratori originari, nell’impegno e nella speranza di un cambiamento sociale dove artisti come Trento Pitotti, Dante Bartolini, Luigi Matteucci e i loro compagni non siano più bollati come “subalterni” ma riconosciuti come cittadini e compagni di un mondo di esseri umani che vogliono essere liberi, diversi e uguali.