Dalla Prefazione di Pietro Clemente
Il futuro del passato
Questa pubblicazione, fatta non solo di parole a stampa ma anche di voci registrate, che sono qui l’anima delle parole scritte, è una sorta di dimostrazione di un argomento che mi è caro e che uso soprattutto nel mondo dei musei, quello per cui la ricerca sulla memoria non serve a salvare il passato ma a salvare il futuro. Queste pagine ci rendono così vivacemente presente la vita e il mondo espressivo del paese di Penne in provincia di Pescara negli ultimi anni ’50, da farceli entrare dentro, oggi, il che vuol dire che domani li avremo nella nostra esperienza rivolta al futuro. Che saranno un arricchimento delle possibilità della nostra immaginazione, della nostra capacità di trasmetterla. Che è anche un altro modo di dire che la storia è sempre storia contemporanea. Ma aggiungo che ritrovo un altro argomento che a me si è imposto collaborando con l’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, dove tutti gli anni, da trent’anni, i diari arrivano da tanti luoghi e da tanti tempi diversi, quello che ho chiamato ‘il passato imprevedibile’. Le storie della vita, o anche solo le voci della vita passata, ci aiutano a riaprire i nostri paradigmi, a vedere come la conoscenza non è mai compiuta del tutto. Soprattutto quella del passato che, fin dai nostri primi studi scolastici, sembra così conclusa, così già interpretata. Figuratevi quante cose sconosciute ci sono ancora nel passato e come ci cambieranno quando le conosceremo. Anche cose piccole piccole. Perché è la piccola storia quella che non conosciamo. In queste pagine, nelle interviste da cui prendono vita, improvvisamente compare un piccolo flusso di storia orale che parla di un carnevale che si configura negli anni ’30, e poi si ridefinisce negli anni della guerra. Le voci dei narratori ci fanno assistere a una loro pratica di memoria storica che si svolge davanti al registratore di Elvira Nobilio in un qualche mese del 1958, e ce la lasciano da gustare oggi, quasi sessant’anni dopo, come una costruzione di storia fatta dalla gente. Ma anche la riflessione che viene fatta dai vari testimoni sulla modernità sorprende in queste pagine, perché è forse una delle prime che siano documentate col registratore, e riguarda una ‘scelta’ che ci viene raccontata mentre è in corso il gigantesco processo collettivo di aderire al moderno.
A sentirli, all’apparenza,ci sembra si dicano cose che somigliano a quelle che diciamo oggi, sul presente e il passato, e invece non è così. Invece negli anni ’70 con probabilità, quegli stessi intervistati ci avrebbero detto che il passato era una cosa pessima, da dimenticare e che ai figli non lo avevano trasmesso per questo, mentre alla fine degli anni ’90 avrebbero rivalutato il passato con un po’ di nostalgia, come una cosa da raccontare ai nipoti, non certo raccontata ai figli. Il racconto della trasformazione e il suo bilancio di senso è molto cambiato nei decenni e in seguito alle diverse evoluzioni della società italiana; questa ‘prima immagine’ dello sguardo sul moderno che vien colta dalla Nobilio è per noi preziosa. Quel sentimento di senso di un tempo che passa, di paragone tra la socialità del lavoro contadino e la solitudine di quello del mondo industriale, fanno il paio qui con la moltiplicazione dei colori e delle forme della tessitura, con la povertà del lavoro dei mezzadri e la sua subalternità ai padroni. Queste voci che parlano di “sé allora” hanno il senso critico anche doloroso di chi sta scegliendo, non quello acritico dei ’70 e ’80, che ho chiamato della ‘smemoratezza del moderno’. A ogni giro del ballo la veduta del tempo cambia, e sono solo queste fonti (povere, minime, comuni, quotidiane, vissute, di senso comune del proprio tempo) che ci aiutano a ricordarlo. Quando vengono alla luce documenti del passato, e in questo caso ‘vive voci’ di ‘allora’, si produce sempre una nuova esperienza della temporalità in noi, che è simile alle esperienze archeologiche. Una sorta di archeologia della contemporaneità. Un registratore degli anni ’50, un ‘motorino’ (ma cosa è un motorino degli anni ’50, un ciclomotore? La Lambretta e la Vespa avevano da poco prodotto i loro modelli…), ci sembra di vedere le continuità come se il tempo dei testimoni fosse lo stesso dei lettori, dobbiamo invece esercitarci a capirlo nella sua alterità: la televi sione era appena nata, nel ’54, gli abbonati erano pochissimi, spesso si vedeva nei bar o al cinema, la SIP non era ancora nata, io non avevo il telefono a casa, non c’erano supermercati e ancora poche erano le auto, a casa mia non la avevamo, ma mio padre, appassionato di tecnologie di riproduzione, aveva un registratore simile a quello usato dalla Nobilio, rarità assoluta. Nel ’56 una coppia sposata in comune poteva essere denunciata come coppia di ‘pubblici concubini’ dal Vescovo di Prato. Anche i jeans non avevano ancora ‘ fatto generazione’. Io avevo 16 anni allora, ero in prima liceo classico. A casa non avevamo l’auto né il telefono, di lì a poco mio padre avrebbe acquistato una Fiat 1100. La Fiat 500 era già nata e con lei anche la 600. Potenziare l’alterità del passato ci aiuta a valutare il tempo, a sentirci parte di un processo complicato, a evitare sommarie semplificazioni. Un esercizio di riflessività che potenzia la capacità di stare nel futuro con i piedi ben piantati nella terra della memoria…
Quanti intellettuali!
Elvira Nobilio ci viene raccontata, insieme alle sue bobine Geloso, in queste pagine, da Omerita Ranalli e da Enrico Grammaroli, come una studentessa di 24 anni di 56 anni fa, che faceva esperienza delle iniziative più dinamiche del suo tempo e più in particolare di quelle che Danilo Dolci aveva avviato nella Trappeto (Partinico) nel 1952, assoluto outsider anche rispetto alla sinistra socialista e comunista, e attivo praticante di una Rivoluzione nonviolenta, da molti detta ‘gandhiana’. Elvira dunque, in questo racconto di fondazione che è bello accogliere e immaginare partendo dai pochi tratti donati da sua figlia, ha una sua ‘conversione leggera’. Costretta da ragioni familiari a lasciare l’esperienza siciliana con Danilo Dolci, diventa però socialmente attiva, o almeno socialmente disposta alla conoscenza, nel suo paese. Per essere più vicina a temi di valore sociale rinuncia a una tesi di Letteratura italiana e ne chiede una di Storia delle tradizioni popolari, disciplina insegnata a Roma da Paolo Toschi, accademico conservatore, ma traversata da anni da fermenti vivacissimi di attenzione al mondo delle classi subalterne e alla sua trasformazione. Negli anni ’50 che Cirese ha raccontato come caratterizzati da una ‘nuova tematica-socio culturale’ nella sua storia degli studi demologici e che legge attraverso le opere di Calvino e Pasolini, e con tante nuove rilevazioni sul campo (tra le quali include anche il lavoro di Danilo Dolci), Elvira Nobilio si fa a suo modo intellettuale, in piccolo, con un impegno di conoscenza della cultura popolare che non è solo una tesi di laurea, ma un modo di scoprire e mostrare la vitalità della cultura di contadini, pastori, artigiani, operai, donne, anziani, giovani, saltando gli steccati che distanziavano i ceti sociali dentro la sua stessa comunità. Lontano dall’idea di trovare un mondo arcaico – tanto che intervista i suoi coetanei e non solo gli ‘antichi’ – Nobilio lo fa con un forte senso del presente, e dei passaggi che sono in atto in esso. E per farsi intellettuale si avvale di una mediazione, quella di Antonietta Ciantra, di poco più grande di lei, una donna vicina alla sua famiglia ma che veniva dal mondo popolare e che diventò la guida del suo lavoro. La stessa Antonietta Ciantra, si intuisce, si fece intellettuale interna della sua stessa cultura.
Negli anni ’40 e ’50 gli intellettuali nascevano come i funghi, come se vivessero il contagio delle pubblicazioni dei Quaderni del carcere di Gramsci. In un certo senso la guerra, il rifiuto del fascismo, l’aprirsi delle gerarchie di potere della società passata, creavano nuove figure di ‘esploratori’ del mondo sociale in ebollizione. Molteplici mediatori. Penso da un lato a Franco Alasia, che con Danilo Montaldi produceva (su ispirazione di Dolci) la più straordinaria narrazione polifonica raccontata dal basso dello sviluppo industriale milanese con Milano-Corea (1959), a Luciano Bianciardi e Carlo Cassola con il loro Minatori di Maremma (1956), grido di battaglia contro i poteri forti della Montecatini responsabile dell’esplosione mineraria di Ribolla del 1954, a Gianni Bosio, ma anche ai tanti altri che compresero la necessità di raccontare le differenze culturali e la trasformazione in campi diversi, dal cinema, alla musica, alle arti. È qualcosa che guardiamo con desiderio oggi, e anche questo è un modo di dire che il passato può darci modi utili di produrre futuro. Ci piacerebbe produrre ancora per il nostro mondo polifonie così ricche, intellettualità diffuse, come quelle che si produssero in quel ciclo storico ma anche di nuovo tra il ’68 e il ’78, in cui il mondo ‘osservato’ dalla conoscenza era un mondo protagonista che si raccontava nel protagonismo. Come ci spiega Omerita Ranalli, Elvira si fece portatrice del metodo antropologico della osservazione partecipata, non tanto perché allieva di Toschi, quanto perché lo respirò nelle domande di democrazia e dialogo sociale del suo tempo. In quegli anni un insegnante molisano in Toscana, Dante Priore, cominciava a raccogliere canti popolari che avrebbe pubblicato solo molti anni dopo, anche lui faceva parte di quel fermento. Così Nuto Revelli stava pensando alle sue storie dei vinti, ma anch’esse sarebbero comparse anni dopo, e Roberto Leydi mostrava le implicazioni sociali e i contesti dei canti. Tante altre ricerche sfociarono nella stagione degli anni ’70, rispetto ad esse il lavoro della Nobilio mantiene il carattere di una ‘anticipazione’. Il fatto che nelle registrazioni della Nobilio, così come nella pubblicazione della sua tesi del 1962, ci siano germi di queste modalità future in cui la voce popolare non è mero documento ma parte della vita di una cultura che è protagonista, aiuta a comprendere che non si tratta di una vicenda qualunque. Nella storia degli studi e in particolare in quelli abruzzesi Omerita Ranalli ha collocato con grande puntualità questo apporto. Io ho solo voluto segnalarlo come indice di una società civile attiva e di una intellettualità diffusa che produce un fermento pur dentro il grigio del mondo politico conservatore degli anni ’50.