Leggi l'editoriale di Francesco Giannattasio
(…) L’argomento della cosiddetta World Music, scelto per inaugurare questa nuova fase di EM, è senza dubbio di estrema attualità – alcuni potrebbero dire da etnomusicologia del nuovo millennio. Ma, uscendo dalla retorica e dai luoghi comuni, esso rappresenta soprattutto un tema urgente e delicato, che chiama a riflettere sull’attuale realtà e sulle prospettive future delle diverse musiche e culture, vale a dire sui fenomeni di incontro, scambio, condivisione e a volte fusione, tra linguaggi musicali fra loro spesso fortemente differenti, ma anche sui risvolti economici e commerciali di tali fenomeni che, nell’era della cosiddetta globalizzazione, non mancano di porre quesiti inquietanti. Tali quesiti riguardano soprattutto la tutela dei legittimi diritti di proprietà morale e materiale delle diverse musiche, a fronte di un loro uso, spesso spregiudicato e lesivo della dignità e dell’identità culturale degli esecutori tradizionali, nei circuiti spettacolari e di consumo dello show business. Il titolo che compare in copertina, World Music: globalizzazione, identità musicali, diritti, profitti, vuole appunto segnalare questo intreccio di questioni sotteso dall’etichetta “world music”.
Il fenomeno world music comincia a delinearsi nella sua attuale configurazione verso gli anni ’80, assumendo la fisionomia di un nuovo movimento musicale caratterizzato dalla sua estensione mondiale, dalla mescolanza di musiche di varie provenienze e da una nuova attenzione di settori giovanili verso le diverse musiche e culture del mondo, spesso associata a una particolare sensibilità verso problemi sociali e politici connessi all’integrazione etnica, economica e culturale[1]. (…) Tuttavia, il movente materiale che porta al nascere della world music sembra essere un altro, e di natura prettamente economica: negli anni ’80 l’industria della musica ha l’urgenza di rinnovare un mercato reso stagnante e sempre meno redditizio dalla crisi di alcuni generi (come il “rock progressivo” e il jazz) e dalla qualità mediocre della produzione musicale successiva agli anni ‘70. I discografici investono allora su un nuovo settore, quello della world music, in cui raggruppano artificialmente, per meglio commercializzarli, tre generi di mercato fino a quel momento marginali:
1. quello, poco redditizio, delle cosiddette musiche “etniche e folkloriche”, fino ad allora edite dagli etnomusicologi nei loro dischi di ricerca;
2. le nuove musiche urbane dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina, fino ad allora destinate soprattutto a una circolazione locale su musicassette;
3. i diversi generi marginali del finto-contadino, della tradizione reinventata, dell’etnico in scatola di montaggio, del métissage e della fusion contemporanee (folk-jazz, etno-rock, afro-beat, New Age etc.).
Il fatto che non si tratti di un’illuminazione ecumenica, ma di un fenomeno del tutto interno alle logiche di profitto dei paesi ricchi, soprattutto eurobianchi, è dimostrato dall’evidenza che, d’ora in avanti, molte musiche funzionali di tradizione orale – canti collettivi, ritmi legati al lavoro o alla danza, musiche liturgiche o di rituali iniziatici ecc. – saranno scelte e diffuse in base a criteri puramente estetici. Senza alcun riguardo per i luoghi o le circostanze di cui sono espressione, queste musiche verranno d’ora in poi offerte a un consumo edonistico di massa, in virtù dell’originalità e delle sonorità inaudite ed esotiche delle voci, degli strumenti, dei ritmi e delle melodie. (…)
Il rispetto per le altre culture e un’informazione corretta divengono così preoccupazioni del tutto trascurabili. Ciò che conta per il mercato sono le forme e le apparenze musicali inaccostumate. Si potrebbe osservare che sono le stesse cose che, oltre un secolo fa, colpirono la sensibilità estetica del Debussy di Pagodes all’ascolto del gamelan giavanese. Ma vi è comunque una differenza: le suggestioni creative di allora divengono oggi appropriazione indebita, creando una serie di problemi.
Va innanzitutto segnalato lo sfruttamento, a puri fini spettacolari, di musicisti non-professionisti. Si pensi, ad esempio, ad aborigeni sud-americani o australiani catapultati, con grande spaesamento, nelle sale da concerto o in mega-raduni all’aperto, tutti nudi con le loro piume e tatuaggi, per fare da attrazione circense a beneficio degli abbonati di teatri d’opera, di giovani appassionati delle scarpe Nike, quando non di pellegrini polacchi in Piazza San Pietro, che possono così toccare con mano l’afflato ecumenico della Chiesa di Roma. (…) Ma le conseguenze non sono irrilevanti neppure quando l’oggetto di un’esportazione spaesante e poco rispettosa delle culture di provenienza siano dei musicisti semi-professionisti, o professionisti su scala locale (come ad esempio, i Tenores sardi di Bitti o il compianto cantante pakistano Nusrat Fateh Ali Khan, depositario di un importante repertorio religioso). La loro repentina trasformazione in vedettes di un circuito spettacolare e mediatico internazionale non manca infatti di creare ripercussioni, più o meno sconvolgenti, nei circuiti musicali di provenienza, alterando sensibilmente un tradizionale uso sociale della musica; anche se è vero che le tradizionali funzioni e occasioni del fare musica sono ormai oggetto, in tutto il mondo, di un inesorabile processo di omologazione ai modelli della comunicazione mediatica di massa.
Un’ulteriore conseguenza, soprattutto relativa alla produzione discografica world music, è quella della cristallizzazione, e spesso di una vera e propria falsificazione, dei repertori musicali originari all’esclusivo fine di un loro più accattivante consumo commerciale. Questo processo di “normalizzazione” e standardizzazione dei repertori, che spesso coinvolge gli stessi esecutori tradizionali, è parte di un più esteso fenomeno di appiattimento dei valori e dei linguaggi musicali, conseguente alla Babele estetica della dimensione world music: una sorta di notte in cui tutti i jembé sono grigi.
(…) Il problema è che le musiche del mondo non sono manghi o papaie, ma autonome forme di espressione, ognuna latrice di profondi, e spesso diversi, valori culturali. L’idea che la musica sia un linguaggio universale, che tutti possono comprendere, usare e trasformare a loro piacimento, è molto comoda, ma anche del tutto errata: è come credere che l’inglese sia l’unica lingua che tutto il mondo può e deve parlare, mentre, allo stato attuale, non è che una lingua veicolare, e nemmeno la più ricca e suggestiva, imposta dal mercato e dalla cultura dominanti. Se un giorno tutti saremo costretti a parlare inglese, che almeno ci resti la consapevolezza che è stata una necessità imposta, e non una scelta.
(…) Per questo sembra venuto il momento che anche gli etnomusicologi escano dalla torre d’avorio in cui sono stati confinati dal cosiddetto “nuovo che avanza”, ma anche dal loro orgoglio ferito, e prendano posizione attiva nei confronti di un fenomeno che li riguarda direttamente; visto che a loro spetta il merito di aver lottato, per oltre un secolo, per la conoscenza, la diffusione e la pari dignità delle culture musicali del mondo.
[1] Cfr. Denis-Constant Martin, Who’s afraid of the big bad world music? (Qui a peur des grandes méchantes musiques du monde?), “Cahiers de musiques traditionnelles”, 9 1996, pp. 3-20 in particolare p. 5.